Gap 8 novembre – La solidarietà non si arresta – Su quei sentieri c’eravamo tutte

fonte: Chez Jesus

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Marocco – Spagna: continua l’attacco in frontiera

Era il 1998 quando con l’entrata in vigore del trattato di Schengen le due colonie spagnole di Ceuta e Melilla diventavano territorio europeo all’interno del continente africano. Il governo spagnolo venne messo sotto pressione dall’Unione Europea per creare una barriera/frontiera che marcasse bene i confini.
Venne così costruito un recinto, un elemento architettonico progettato appositamente per ferire e uccidere le persone. L’architetta Lucia Gutierrez lo spiega in maniera chiara: “l’altezza della recinzione rende la caduta mortale, la disposizione obliqua della stessa è fatta a posta per provocare la caduta ed è girata verso il Marocco, la fune tridimensionale tra recinti è di acciaio ed è disposto per catturare le gambe e, infine, il filo spinato, che sta in varie parti della struttura”.

Domenica 21 ottobre una persona è morta e una decina sono rimaste ferite in maniera grave quando circa 300 persone migranti hanno cercato di oltrepassare questa barriera che separa Melilla dal Marocco. In 208 sono riuscite a passare, accolte dai loro fratelli già presenti nel CETI (Centro de Estancia Temporal).
Tuttavia, poco meno di 24 ore dopo, 55 persone del gruppo sono state espulse dal governo spagnolo verso il Marocco. I restanti (esclusi i 10 feriti) hanno chiesto asilo politico. 3 sono minori. In poche ore, il governo spagnolo ha messo in marcia un dispositivo di identificazione accelerato, con un gruppo di 30 avvocati, per poter espellere il più rapidamente possibile chi aveva passato la recinzione di Melilla. Nonostante la presenza dei legali, si ripete una seconda volta quanto già avvenuto il 23 agosto scorso al seguito degli accordi tra Spagna e Germania (avallati dall’UE) per “aiutare” il Marocco nel controllo dei flussi migratori. Ossia l’espulsione in massa in Marocco di persone migranti di nazionalità non marocchina. Una pratica che organizzazioni dei diritti umani ha definito totalmente illegale perché non permette alle persone di avviare le procedure necessarie alla richiesta di protezione internazionale.

Sempre lo stesso giorno, inoltre, le autorità marocchine hanno deciso di espellere verso il loro paese d’origine (regione subsahariana) 141 migranti che hanno partecipato all’assalto delle frontiere di Melilla senza riuscire a passare perché arrestate dai militari marocchini. 10 dei quali, tengono a sottolineare le autorità del Marocco, sarebbero rimaste ferite durante le operazioni. Ma dall’inizio di settembre, almeno ufficialmente, il Marocco ha espulso 91 migranti, tra cui 6 minori. Altre 37 persone restano detenute. Continua a leggere

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Torino – Sulla sorveglianza speciale e ciò che le ruota intorno

Fonte: Macerie

INTELLIGENZA, CUORE E CAPARBIETÀ

Sulla sorveglianza speciale e ciò che le ruota attorno

Se da qualche parte bisogna pur partire per raccontare questa storia, allora cominciamo da una squadra di solerti carabinieri siti in Mirafiori che, colti dall’affanno di continue incursioni sotto le mura del CIE di rumorosi e scoppiettanti solidali con i reclusi, si impegnano a scrivere annotazioni e rovistano tra siepi e zolle di terra sospette.

Era il lontano 2015 e nel Centro di detenzione per senza documenti, uno dei pochi rimasti in Italia dopo che l’ondata di fuoco e rivolte del 2011 aveva travolto queste infami strutture, i reclusi mettevano in atto resistenze individuali o collettive, scioperi della fame e fughe mentre fuori gruppi di solidali tentavano di rallentare la ristrutturazione delle aree, anch’esse danneggiate dal fuoco delle rivolte.

I carabinieri del nostro racconto, non soddisfatti di quello che (non) stavano trovando, decidono di attendere tempi migliori e nel frattempo affastellano episodi e imbrattano fogli riportando vita, morte e miracoli di un compagno e delle lotte che porta avanti insieme ad altri in città. Tre anni dopo, quando i tempi sembrano maturi, consegnano le carte della lunga indagine nelle mani di un appassionato pm torinese che, con il materiale fornitogli, traccia il profilo del papabile Sorvegliato Speciale, personaggio che per la sua intransigenza all’autorità e le tante azioni di insubordinazione all’ordine costituito, dovrebbe destare allarme sociale e mettere in pericolo la pubblica tranquillità. Il medesimo profilo era stato appiccicato addosso, alcuni anni prima, ad altri quattro compagni torinesi che hanno poi dovuto scontare più di un anno di Sorveglianza.

La storia si ripete ora: le parole scritte in lingua di legno uscite dal Tribunale torinese hanno decretato due anni di Sorveglianza Speciale, applicata dall’agosto appena passato, ad Antonio. Continua a leggere

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Egitto – Alcuni aggiornamenti sulla repressione

Di ritorno dalla Repubblica Ceca per partecipare alla selezione del premio “per i diritti umani” Vaclav Havel, alla compagna e avvocata Mahienour el-Masry ancora una volta è stato ritirato il passaporto.
È lei stessa a raccontare le restrizioni e i soprusi a cui è sottopostx chi lotta e denuncia la dittatura dei militari.
“Buona sera, tre mesi fa hanno illegalmente sequestrato il mio passaporto nell’aeroporto del Cairo. Mi è stato chiesto di recarmi in una delle sedi dei servizi segreti ad Alessandria, ma essendo un gioco di forza mi sono rifiutata di andare. Tuttavia, ho fatto due cose: la prima è stata scrivere una lettera di reclamo all’avvocatura generale e la seconda è stata chiedere un’altra copia del passaporto “per smarrimento”. Ha vinto la seconda opzione, sono riuscita ad avere un nuovo passaporto, visto che legalmente non ho processi a carico.
Sono stata invitata come difensora dei diritti umani dall’ufficio Vaclav Havel in Repubblica Ceca per scegliere chi vincerà il premio annuale per i diritti umani. Ho deciso di accettare anche per vedere se sono tra le persone a cui è vietato partire o no. Le spese del viaggio sono state finanziate per metà da loro e il resto a mio carico, giusto per rispondere alle persone che se lo chiedono. Ho deciso di rendere pubblico tutto questo solo dopo che sono partita per evitare problemi con la sicurezza.
Sono nella lista delle persone che viene immediatamente richiesta, per questo vengo perquisita prima di salire sull’aereo e ancor di più quando rientro dai viaggi.
Oggi mi hanno perquisita per più di tre ore, in attesa dell’ordine dai servizi segreti di farmi partire o meno. È la stessa cosa che mi aspetta al mio rientro. Ho voluto comunicarlo anche per ringraziare tutte le persone che mi hanno sostenuta nel riavere il mio passaporto e anche perché le persone devono sapere come si è evoluta la situazione.
Alla fine, non so perché non mi hanno sequestrato il passaporto, né perché questa volta hanno deciso di farmi partire. Quello che so è che non smetteremo di vivere le nostre vite e di pretendere i nostri diritti cercando in tutte le forme possibili di pretendere il diritto alla libertà di movimento di tutte le persone”.

Nel paese, intanto, la repressione sanguinaria del regime continua senza freno. Tre oppositori politici (Sayed al-Banna, Walid Shawky and Ahmed Sabry Abu Alam) sono stati prelevati dalle loro case o da lavoro e sottoposti a sparizione forzata. Sono perseguitati per le proteste contro la cessione delle isole Tiran e Sanafin all’Arabia Saudita. Proteste accadute nel 2016 ma ancora pretesto utilizzato dal regime per mettere in galera gli oppositori politici.

L’avvocato e compagno Haitham Mohamadein e Abir Al-Sufti (membra del partito d’opposizione Pane e Libertà) pur avendo vinto contro il ricorso della procura che si era opposta alla loro scarcerazione sono da 6 giorni detenuti nei vari commissariati del regime in attesa del rilascio.

12 ultras dell’Ahly sono stati arrestati per dei cori contro un rappresentante del governo saudita presente allo stadio. Tuttavia, non esistono dei dati ufficiali di tutti i tifosi che sono detenuti nelle gabbie del regime. Dal 2011 i gruppi ultras d’Egitto, in primis quelli dell’Ahly e del Zamalek da sempre tra le forze rivoluzionarie più attive del paese, sono al centro della repressione governativa che li annovera tra le “organizzazioni terroristiche”.
Da quando il regime di Sisi è al potere sono 2300 le persone ufficialmente condannate a morte, tra cui almeno 10 minori, 83 le persone impiccate. A queste si aggiungono gli assassinii extragiudiziali. Solo quest’anno secondo dati dello stesso esercito 450 “presunti terroristi” sono stati uccisi durante le operazioni militari nel nord del Sinai che vanno avanti da anni. 77000$ dollari sono stati finora stanziati per ripagare le persone vittime di spostamento forzato.

Unica notizia positiva è la scarcerazione di Yassin, un attivista di 24 anni che ha scelto di presentarsi lui stesso in commissariato al fine di scontare una pena sospesa di due anni “per manifestazione non autorizzata” e riuscire così a vivere con maggiore libertà.

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Sardegna – Sul CPR di Macomer

Riceviamo e pubblichiamo. Per scriverci e inviarci contributi: hurriya[at]autistici.org

Macomer è un comune di circa 10.000 abitanti, situato nel centro Sardegna, alle pendici della catena del Marghine, di cui è anche il centro principale.

Macomer ospita il 5° reggimento del genio guastatori e il comando della 45° brigata fanteria Arborea: questi due ingombranti ospiti ne fanno una succursale della Brigata Sassari, la storica brigata dell’esercito italiano, macchiatasi di incredibili massacri in tutte le guerre del ‘900 e ancora oggi presente su tutti i fronti di guerra aperti.

Una presenza così cospicua di militari e delle loro famiglie rende Macomer un paese tendenzialmente ubbidiente e allineato, probabilmente anche questo fattore ha inciso nella scelta dell’apertura del CPR.

Il CPR, di cui in questo momento i lavori sono in corso e in fase di ultimazione (prevista per dicembre), sorgerà nell’edifico del vecchio carcere di Bonu Trau, un “piccolo” carcere chiuso cinque anni fa quando il nuovo piano carceri portò all’apertura nella sola Sardegna di quattro nuove mega strutture, dislocate lungo i quattro punti cardinali.

Il CPR dovrebbe essere in grado di “ospitare” inizialmente 50 migranti da rimpatriare, ma il progetto prevede un raddoppio della capienza, in tempi non ancora chiari. I migranti potranno essere reclusi per un massimo di 12 mesi, più un’eventuale proroga di 15 giorni, se questa dovesse rendersi indispensabile per completare l’operazione di rimpatrio. Continua a leggere

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Torino – Rivolta nel CPR di Corso Brunelleschi

Aggiornamento del 18 ottobre: dai media arriva la notizia dell’arresto, con l’accusa di danneggiamento, di 15 reclusi accusati per la rivolta.

fonte: Macerie
Il fumo sale oltre le mura della prigione per senza documenti di corso Brunelleschi, un passante lo nota e con un tam tam la notizia arriva anche ai compagni che mantengono alcuni contatti con l’interno. Bastano poche parole al telefono con un recluso per capire che è in atto una rivolta e che le aree stanno bruciando, ancora una volta.

Il motivo scatenante sarebbe il cibo, arrivato alle 15 con estremo ritardo e sempre in condizioni schifose. Non è una novità, come non lo sono le più ampie condizioni di vita all’interno del centro che con l’inverno alle porte si faranno più dure, non a caso uno dei motivi che ha rincarato la rivolta è l’assenza di vestiti e indumenti per ripararsi dal freddo.

Il fuoco è partito dall’area bianca per poi contagiare le altre, al momento l’intera area verde è inagibile. La rappresaglia poliziesca è scattata molto velocemente, sia nel sedare la rivolta sia nel punire alcuni detenuti portandoli in isolamento e picchandoli, non si sa ancora nulla di loro.

Alla fine della giornata di ieri i reclusi hanno rifiutato il cibo, unendosi ad alcune persone che erano già in sciopero della fame da qualche giorno.

Qui le parole di due reclusi che ci raccontano della rivolta.

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Trapani – CIE, poi Hotspot e ora CPR: cambiano i nomi ma nel lager di stato continuano i tentativi di fuga e le rivolte

Secondo quanto riporta il blog Borderline Sicilia “l’hotspot di Trapani dal primo ottobre è ufficialmente un CPR, quindi la prefettura ha sospeso il bando esistente affidando la gestione a Badiagrande, che a suo tempo aveva vinto il bando quando la struttura era un CIE (prima di essere trasformata in hotspot)”.

Il nome della struttura è cambiato 3 volte in tre anni ma rimane inalterata la realtà di un campo di concentramento per la selezione e la deportazione delle persone migranti, così come le continue resistenze di chi vi è recluso.

Lo scorso 10 febbraio una sessantina di reclusi aveva tentato la fuga e dato fuoco a delle suppellettili. Un nuovo tentativo di fuga collettivo è avvenuto l’8 ottobre: “novanta immigrati hanno cercato di scappare in massa dall’hotspot di Milo, a Trapani. Si tratta di un grosso numero di tunisini trattenuti nel centro per lo smistamento e l’identificazione della città siciliana. Come scrive TrapaniOggi, si è reso necessario l’intervento della polizia (agenti della questura di Trapani e il reparto mobile di Palermo) per arginare le loro velleità e per riportare la situazione nei ranghi. Non è escluso che nel caos creatosi all”interno dell”hotspot – e durato diversi minuti – qualcuno sia effettivamente riuscito a darsela a gambe. Pare, infatti, che qualcuno sia riuscito a scavalcare le recinzioni e far perdere le proprie tracce alle forze dell”ordine intervenute.
Il giorno successivo, 9 ottobre, 20 tunisini sono stati deportati nel paese di provenienza, con uno dei consueti voli programmati due volte a settimana, in base agli accordi col governo della Tunisia, dall’aeroporto Falcone-Borsellino di Palermo verso l’aeroporto di Enfida-Hammamet

In un comunicato, i sindacati di polizia si sono lamentati della situazione nel lager: “il personale dei reparti mobili della polizia è spesso in numero inadeguato per fronteggiare le continue rivolte poste in essere dagli ospiti extracomunitari, “si susseguono gli episodi di violenza, vere e proprie azioni di guerriglia organizzata. Oltretutto, a rendere ancora più difficile la situazione c’è il fatto che la struttura, al momento, non è ancora adeguata alle caratteristiche richieste per un Cpr”.

In Sicilia rimangono ora tre hospot sui quattro presenti in Italia: Messina, Lampedusa e Pozzallo. In quest’ultimo lager 72 persone (e tra di loro una donna incinta e bambini di età compresa tra i 5 mesi e i 5 anni) sono segregate da tre mesi, malgrado il trattenimento negli hospot sia autorizzato per 48 ore, tempo aumentato dal recente decreto sicurezza ad un massimo di 30 giorni. Anche a Pozzallo, nel maggio scorso, un tentativo di fuga era stato represso dall’intervento delle forze dell’ordine.

A Lampedusa l’hotspot, con una capienza ufficiale di 95 posti e ancora non completamente ristrutturato dopo la rivolta del marzo 2018, continua a recludere quasi 200 persone – sbarcate direttamente sull’isola – in disastrose condizioni di sovraffollamento e mancanza dei minimi servizi: anche i minori sono costretti a dormire per terra e negli uffici del personale.
In Sicilia è presente anche un altro CPR, quello di Caltanisetta – Pian Del Lago, a quanto ne sappiamo ancora chiuso in seguito ai danneggiamenti provocati dalla rivolta del 9 dicembre 2017. Per questa rivolta, che ha temporaneamente chiuso un lager dal quale nel 2017 erano state deportate 1.565 persone, due tunisini sono detenuti in carcere e sotto processo con l’accusa di “devastazione e saccheggio”.

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Claviere – Sgombero del rifugio autogestito Chez Jesus e del presidio

Fonte: Chez Jesus – Rifugio Autogestito

15 ottobre 2018
+++ STANNO SGOMBERANDO IL PRESIDIO DAVANTI ALLA CHIESA A CLAVIERE +++

Da mercoledì dopo lo sgombero alcun* solidali avevano attrezzato la piazza davanti alla chiesa con alcune tende, bevande calde e cibo per chi si ritrovava bloccat* alla frontiera. I respinti sono numerosi ogni notte e il freddo della montagna e’ forte.
Dallo sgombero di Chez Jesus, la polizia italiana presidia la chiesa e quando hanno visto pochi solidali – o volevano provocare – sono venuti a identificare tutti. Un paio di volte si sono imbarcati coloro che il documento non lo avevano, portando delle persone a Bardonecchia per controllo di identità.
In questo momento la celere e la Digos stanno procedendo allo sgombero della piazza identificando tutte le persone. La solidarietà non si SGOMBERA, chi può venire a dare supporto accorra.

14 ottobre 2018
SULLO SGOMBERO DI CHEZ JESUS

Hanno sgomberato Chez Jesus.
14 camionette, verie macchine di polizia e carabinieri, il solito gregge numeroso di digossini impettiti. Sono arrivati per le 7.40 di mercoledì mattina. Hanno sfondato la porta con un ariete e un martello, e sono entrati.

Il prete che ci ha denunciato, Don Angelo Bettoni, non si è fatto vedere. Il sindaco si, invece. Era con la polizia a ispezionare i locali mentre buttavano fuori vestiti, tavoli, coperte, i materassi restanti. Mentre arrivava la ruspa per prendersi le cose e mettevano le griglie alle finestre.
Ma si conosceva la posizione del sindaco, che da sempre voleva lo sgombero, in quanto Chez Jesus “minacciava le attività economiche del paese e faceva aumentare il flusso di migranti (rendendolo più visibile) dato che si dava cibo e posto per dormire.”

Hanno subito diviso, come secondo le loro categorie, quelli che considerano “migranti” e quelli che considerano “anarchici”, “No Border”, o come gli pare. I primi se li sono portati via, per un “controllo d’identità”, probabilmente alla questura di Bardonecchia. Pare che due di loro siano stati rilasciati perché “in domanda di asilo”. Il terzo, invece, ha ricevuto un decreto di espulsione.
Gli altri sono stati bloccati per ore tra cordoni di polizia e hanno ricevuto una denuncia.

Ci hanno sgomberato perché, come approvato all’unanimità dal Consiglio della Città Metropolitana di Torino il 5 ottobre, bisogna “restituire alla Politica vera” il “tema dell’immigrazione” (cit. Monica Canalis, consigliera PD, direzione marketing Intesa Sanpaolo). Che significa, come esplicitato dal nuovo decreto sicurezza-immigrazione di Salvini, il controllo e la gestione totale di chi arriva in Italia senza il documento considerato “giusto”. Significa rendere “illegali” nuove migiaia di persone grazie alla eliminazione della Protezione Umanitaria. Significa più retate, centri di detenzione, deportazioni.
Vogliono dei nuovi schiavi, disposti a lavorare per niente, sotto la minaccia costante del documento o del CPR. E che se provano a ribellarsi si vedranno bloccata o revocata la richiesta di asilo, dato che ormai anche solo partecipare alle manifestazioni significa essere categorizzato “soggetto pericoloso”.

Chez Jesus si è sempre opposto a ogni forma di selezione e controllo. In quel rifugio, nessuno chiedeva i documenti, nessuno gestiva, nessuno controllava. Era uno spazio per organizzarsi insieme contro le frontiere, chi le vuole oltrepassare e chi le vuole distruggere, in modo libero e autogestito, affinché ciascunx potesse scegliere dove e come vivere, senza che una frontiera spezzasse vite e scelte. Lontano dal business dell’accoglienza e dell’espulsione, lontano dal business dei passeur.

Anche il vescovo di Susa, A. B. Confalonieri, ha espresso la sua soddisfazione per l’operazione di sgombero svolta dalle alle forze di polizia. É un prete che ci ha denunciato. È con la Chiesa che la Prefettura ha preparato lo sgombero, pulendosi la faccia con l’apertura di un posto a Oulx. E come ricorda lo stesso vescovo, “la chiesa valsusina ha collaborato con altri enti per aprire il nuovo centro di accoglienza di Oulx, più adatto alle esigenze degli stranieri”. Ossia: un luogo aperto dalle 20 di sera alle 8 del mattino a 15 chilometri da quella frontiera che chi vuole andare in Francia cerca di attraversare e dove le persone vengono respinte.

La Chiesa possiede circa il 20% del patrimonio immobiliare presente in Italia, per un valore di circa mille miliardi di euro. Un impero del mattone, in pratica. Una multinazionale immobiliare, piena di strutture e soldi.
Che da una parte si fa propaganda con la sua retorica “dell’accogliere”, dall’altra sgombera un sottochiesa che ha dato rifugio a migliaia di persone in questi quasi 7 mesi.

Anche per questo hanno sgomberato Chez Jesus. Questione di soldi, oltre che politica.
E sono tutti contenti. Lo Stato francese e le sue guardie, che riescono a tenere meglio sotto controllo il flusso di persone diretto in Francia. Lo Stato italiano, che non ama luoghi né spazi di autegestione, fa rispettare la sua legge e “riconsegna regolarmente alla proprietà” i locali del sottochiesa. La Chiesa, proprietaria dei locali; le sue cooperative che andranno a guadagnarci dalla gestione del luogo aperto a Oulx. Le attività commerciali di Claviere, che sperano di vedere così scomparire i migranti di passaggio diretti in Francia che rovinano il turismo.
Il fabbro di Gravere, che si è fatto i soldi mettendoci le griglie alle finestre. L’impresa che ha sgomberato fisicamente il luogo e buttato tutto in discarica.
Ognunx ha le sue responsabilità. Non ce lo dimentichiamo.

Invitiamo tuttx ad azioni diffuse. Contro le frontiere, e il loro dispositivo. Ricordiamo inoltre che la Chiesa ha comunque un ruolo di primaria importanza nel nostro sgombero.

La lotta alle frontiere non si arresta.
Il primo apputamento è sotto le mura del CPR di Torino, questa domenica, ore 16.

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Marocco e Spagna: il regime della frontiera

Lo scorso l’11 agosto è entrato in vigore un accordo segnato tra il primo ministro dello stato spagnolo Pedro Sanchez (partito socialista) e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Il piano, che è entrato in vigore l’11 agosto, prevede che i richiedenti asilo arrivati in Germania ma registrati in Spagna possano essere riportati indietro entro 48 ore.
In cambio, la Germania ha garantito il suo appoggio affinché l’Unione Europea sblocchi dei fondi – almeno 30 milioni di euro dei 130 richiesti– “per aiutare” il Marocco a bloccare le partenze di persone migranti verso l’Europa.

Nel 2018 il paese con più sbarchi in Europa è stata la Spagna con circa il 40% di tutti gli arrivi. Di questi, la maggior parte sono persone provenienti dalla regione subsahariana ma una buona parte sono anche persone di nazionalità marocchina, tra cui anche numerosx esuli che fuggono dalla repressione militare in atto nella regione del Rif.

In realtà, per quello che concerne il tema delle migrazioni non esiste un accordo definitivo tra Marocco e Spagna e per estensione con l’Unione Europea. Piuttosto esistono dei negoziati permanenti tra le parti che durano dal 2003. È dal 2000, infatti, che il Marocco mette sotto pressione l’Unione Europea facendo leva sulla sua posizione strategica di paese limitrofo (14 km di mare nel punto più stretto) e presentandosi come un potenziale alleato “nella lotta all’emigrazione clandestina” (come fa anche l’Egitto del generale al-Sisi o la Turchia di Erdogan). I termini della relazione possono essere riassunti così: da una parte c’è l’UE che vuole difendere/estendere le proprie frontiere chiedendo misure sempre più ferree ai paesi del Nord Africa (e non solo); dall’altra i benefici in termini economici (investimenti economici o facilitazioni nello stanziamento di prestiti FMI), militari, diplomatici (il riconoscimento internazionale) e politici che la sottoscrizione di tali accordi porta a paesi in forte crisi economica e a governanti senza alcun sostegno popolare. È su queste basi che a partire dagli anni 2000 è cominciata la cosiddetta “esternalizzazione della gestione delle migrazioni da parte dell’UE”. Il che in termini economici è valso al Marocco diversi vantaggi (accordo sulla pesca di cui si discute inevitabilmente proprio in questi giorni), un programma di 40 milioni previsto per la gestione delle frontiere, diversi finanziamenti (476 milioni 2000-2006) contro la disoccupazione, la povertà e lo sviluppo delle regioni del Nord del paese. Compreso il Rif in cui da almeno un anno la popolazione non smette di scendere in strada nonostante una repressione brutale. In cambio, l’Unione Europea ha sempre utilizzato il Marocco come un suo braccio armato nella gestione dei fenomeni migratori, nonché territorio dove espellere le persone che abbiano transitato sul suolo marocchino. Quest’ultimo punto sembra essere uno dei nodi centrali nel proseguo delle negoziazioni e la sottoscrizione di un accordo definitivo. Il Marocco, infatti, è intenzionato a riprendere solo le/i proprx cittadinx ma non chi ha nazionalità differenti. E in effetti, il 5 ottobre scorso il governo ha fatto sapere all’UE di non essere disposto ad accettare la costruzione di centri di detenzione sul proprio territorio.

Tuttavia, il 23 agosto scorso è successo qualcosa che apre degli scenari del tutto nuovi. 116 persone migranti arrivati nell’enclave di Ceuta il giorno prima,sono stati tutti espulsi in massa, senza preavviso, senza che abbiano potuto presentare domanda d’asilo, dunque senza il minimo rispetto di alcun tipo di diritto, verso il Marocco. 10 di loro sono stati anche arrestati dalla guardia civile con l’accusa è di “aver organizzato e diretto l’intrusione massiccia e violenta” a Ceuta. I reati contestati sono di violenza contro gli agenti di sicurezza, appartenenza a un’organizzazione criminale e danneggiamento.

Era dal 2005 che il Marocco non riammetteva persone di altre nazionalità 24 ore dopo la loro entrata in Spagna. Per farlo il governo socialista di Sanchez ha rispolverato un vecchio accordo tra i due paesi siglato nel febbraio 1992 dopo che 800 persone migranti riuscirono ad entrare a Melilla. Da quel momento il patto è stato applicato in rari casi e dal 1999 al 2003 totalmente sospeso (114 casi di espulsione dal 1992 all’agosto 2018). Le autorità marocchine hanno sottolineato che “l’accordo riprende all’interno della nuova politica migratoria europea”. Ossia, decine di migliaia di milioni di euro per aumentare il controllo delle frontiere. Ma non è tutto.

Il 27 settembre scorso, una nave della marina reale marocchina spara su una piccola imbarcazione che si dirige verso la Spagna. Hayat, marocchina, studentessa di diritto rimane uccisa. Altri passeggeri, tutti marocchini, sono gravemente feriti. Hayat e gli altri vengono da Tetouan, una città del nord del paese, nel Rif occidentale. Si tratta di una regione ormai militarizzata a causa delle proteste popolari che vanno avanti da un anno e che hanno portato decine di militanti (anche minori) a riempire le carceri del Makhzen. La risposta della gioventù locale non si fa attendere. Al grido di “uccideteci tuttx”, “il popolo rinuncia alla nazionalità marocchina” in migliaia scendono per le strade della città e si scontrano con la polizia. L’esodo dei/delle giovani del Marocco è un fenomeno sempre più massiccio. A questi si aggiungono gli/le esuli che fuggono dalla repressione militare nel Rif. Molti di loro finiscono nei CIE (centri di identificazione ed espulsione) del governo socialista spagnolo. Tanti sono anche espulsi direttamente nelle galere del Marocco. Moltx finiscono sfruttatx nei campi della Spagna. Ed è proprio in questo contesto che le lavoratrici stagionali marocchine, in gran parte provenienti proprio dal Rif in rivolta, hanno messo in atto una dura protesta contro un sistema che le sfrutta, ne abusa sessualmente, le utilizza a fini propagandistici (è il caso del Sindacato andaluso dei Lavoratori).

Ma le conseguenze degli accordi tra Marocco, Spagna e UE hanno effetti ancora più tragici. Da questa estate, infatti, delle vere e proprie milizie di polizia sotto il comando del ministero degli interni marocchino effettuano sistematicamente continui rastrellamenti in tutte le principali città del nord del Marocco a caccia di persone migranti provenienti dalla regione subsahariana. Secondo un modello attivo anche in Algeria (dove tuttx sanno che c’è la mano dell’Unione Europea) donne, uomini, minori, vengono catturatx, i loro beni rubati da bande criminali e dalla stessa polizia, percossx, messx su autobus e portatx nei lager o nelle carceri delle città a Sud del paese. Spesso sono abbandonatx a loro stessx nel deserto. Finora si contano due morti durante le deportazioni. Tuttavia, è difficile avere dati attendibili di quello che avviene nei lager del paese.

Quanto alle persone che riescono a lasciare le coste del Marocco, spesso sono lasciate morire in mare dalle autorità militari. La Spagna (e dunque l’UE) stanzia milioni di euro affinché il Marocco faccia il gioco sporco, presentandosi agli occhi di tuttx come un governo umanitario. Il 3 ottobre scorso la guardia costiera spagnola ha accusato di aver lasciato volutamente affondare un’imbarcazione con almeno 34 persone. Come sempre l’Unione Europea scarica su altri le responsabilità di massacri di cui è il mandante. Vicende già viste in Egitto, in Libia, in Algeria e in Marocco da anni e anni.

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Roma – Sul presidio solidale e la situazione nel CPR di Ponte Galeria

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Domenica 7 ottobre un gruppo di persone solidali ha partecipato al presidio di fronte al CPR di Ponte Galeria per portare solidarietà alle donne rinchiuse all’interno.

Nella cornice della Fiera di Roma dove si stava svolgendo il Romics (la fiera del fumetto), centinaia di persone sono passate accanto alle mura di un lager senza conoscere e interessarsi della reclusione forzata di donne che, per il fatto di non possedere una carta che ne legittimi la presenza sul suolo italiano, sono state rapite dalla loro vita quotidiana, il lavoro, gli affetti, le speranze di trovare una nuova vita altrove.

In continuità con i governi passati, presenti e futuri, la politica dell’oppressione colpisce gli elementi più deboli, le persone appena arrivate dopo viaggi pericolosi in mare o le lavoratrici residenti in italia da anni, sfruttate dal padrone, in fuga delle violenze di un compagno, ricattate per il permesso di soggiorno. All’interno dei CPR la reclusione si vuole estendere dagli attuali 90 a 180 giorni, raddoppiando così l’isolamento e la sofferenza dell’attesa di una decisione che potrebbe ricondurre la loro esistenza al punto di partenza.
Accanto, nella sezione maschile, ormai chiusa da tre anni grazie alle rivolte di chi vi era recluso, proseguono i lavori di ristrutturazione.

Durante il presidio numerosi cori, musica e interventi dal microfono hanno cercato di mettere in contatto i/le solidali all’esterno con le donne all’interno. Quest’ultime si sono fatte sentire prima con saluti, poi richiedendo il numero di telefono con cui è stato possibile comunicare e ricevere notizie più dettagliate.

Le donne si sono passate il telefono permettendoci di parlare con molte di loro.
Al momento ci sono circa 80 recluse di diverse nazionalità. Molte di loro si trovano da tanti anni in Italia, alcune ci sono nate, hanno qui famiglia e affetti, la loro vita.
I racconti che giungono da dentro sono già tristemente noti: cibo che fa schifo, continui malesseri, medici che rispondono alle loro richieste somministrando farmaci a caso, impossibilità di parlare con i familiari, avvocati che prendono tanti soldi per non fare nulla, le menzogne degli operatori, che hanno provato a nascondere alle donne la nostra presenza lì fuori raccontando che le grida che sentivano venivano da un campetto di basket!

Nonostante i continui tentativi di infantilizzarle e trattarle da ingenue, le donne comprendono benissimo l’ingiustizia di uno stato razzista che le imprigiona, le sottrae per mesi ai propri cari con l’intento di costringerle a tornare nei propri Paesi d’origine, che a malapena conoscono, da cui mancano da anni e che, evidentemente, hanno scelto di lasciare. Così come hanno capito che eravamo lì per loro ed è stata grande la gioia che ci hanno manifestato, e lo è altrettanto la nostra ogni volta che riusciamo a sentire le loro voci oltre quelle alte e pesanti mura.

Restiamo accanto a chi lotta in ogni prigione.

nemic* delle frontiere.

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