Sulle migrazioni e sulla gestione del sistema di accoglienza da anni si producono inchieste, saggi, articoli, tesi universitarie, libri, dibattiti televisivi, reportage.
Il fulcro di tutti questi scritti è sempre e solo uno: come gestire le persone che arrivano in Italia? Le risposte divergono ovviamente tra razzisti e antirazzisti, tra chi vuole centri grandi o piccoli e “diffusi”, controlli più o meno severi sulle persone che vivono nei centri, una gestione locale o centralizzata, pubblica o privata, un controllo del funzionamento di questi centri dall’alto o dal basso, etc. etc.
In tutti i casi, non si chiede mai il parere delle persone che dovrebbero essere “accolte”, e questo né prima, né al termine del percorso di accoglienza, che per i/le più si conclude dopo anni con un respingimento della domanda d’asilo che li/le obbliga a sopravvivere da “irregolari”. I loro bisogni e desideri sono cancellati, il loro punto di vista censurato, le proteste silenziate, perché l’autodeterminazione deve cedere il passo alla benevolenza umanitaria e interessata di chi deciderà sulle loro vite: legislatori, poliziotti, gestori dell’accoglienza, sindaci, operatori, membri delle commissioni d’asilo, giudici, magistrati, assistenti sociali.
È per questo motivo che troviamo interessante condividere questo articolo, dove, caso più unico che raro, due persone possono raccontare le loro esperienze nel limbo dell’accoglienza e trarne un bilancio.
“Blessed e Wisdom hanno in comune una buona parte del loro viaggio verso l’Europa: partiti entrambi dalla Nigeria, hanno attraversato il Niger, conosciuto l’arsura del Sahara e poi le sofferenze della discriminazione e della carcerazione in Libia. A Tripoli si sono incontrati sul gommone che li avrebbe trasportati fino alle coste italiane; un viaggio che avrebbe dato vita a un’amicizia, corroborata dal freddo dei monti delle valli orobiche prima e delle strade cittadine bergamasche poi.
Nel maggio 2017 sono attraccati a Vibo Valentia e in pochi giorni sono stati trasferiti dall’hotspot calabro al comune di Urgnano, nella pianura bergamasca; trascorse tre settimane hanno di nuovo raccolto i loro pochi averi per essere ricollocati nel Centro di Accoglienza Straordinaria istituito a San Simone (Valleve), località sciistica bergamasca nell’alta Valle Brembana, caduta in disgrazia a seguito del fallimento della società Brembo Super Ski, ente gestore degli impianti sciistici. Convertito a Centro d’accoglienza, l’albergo affacciato sulle piste avrebbe dovuto sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza; di fatto, i suoi ospiti hanno trascorso qui più di tre stagioni, prima della chiusura definitiva della struttura.
Abbiamo chiesto a Blessed e Wisdom, rispettivamente di 25 e 28 anni, che in comune hanno anche la revoca dell’accoglienza e quindi l’espulsione dal sistema dei centri per richiedenti asilo, di condividere con noi idee e opinioni sull’ospitalità italiana e di raccontarci le loro esperienze dal Centro di San Simone a oggi.
Quanto è durata la tua permanenza nel Centro di Accoglienza di Valleve e perché ne sei stato allontanato? Dove vivi ora?
Blessed: «Ho trascorso a Valleve 5 mesi. A novembre sono stato allontanato dal Centro per un litigio con un altro ragazzo: era un periodo di forte nervosismo, perché arrivava l’inverno e noi ci vedevamo sepolti nella neve di San Simone. Una discussione futile è bastata a scatenare la rabbia di entrambi e il ragazzo è finito in ospedale con il setto nasale leggermente deviato. Ho trascorso due mesi alternando la vita in strada a brevi soggiorni in casa di alcuni ragazzi italiani che hanno deciso di aiutarmi, finché una di loro, trasferendosi in una casa spaziosa, mi ha accolto e ha compilato per me la Dichiarazione di ospitalità».
Wisdom: «Ci era stato garantito che non avremmo trascorso in quel centro più di 5 mesi, poi i tempi sono andati aumentando e la risposta della Cooperativa era sempre che “presto ci avrebbero trasferiti”. All’ennesima promessa disattesa, a febbraio 2018 abbiamo organizzato una manifestazione pacifica per chiedere di essere trasferiti: abbiamo bloccato la strada ai turisti, permettendo l’accesso solo ai bambini delle scuole e ai mezzi spalaneve; in pochi giorni sono arrivati i trasferimenti per la maggior parte di noi ospiti e io mi sono ritrovato a Urgnano e poi a Botta di Serina. Dopo due mesi, però, è arrivato per tutti i manifestanti l’avviso di revoca delle misure di accoglienza e abbiamo dovuto lasciare i vari Centri. Ora vivo per lo più con un connazionale, con documenti regolari, con cui divido le spese di affitto e bollette, ma sempre come ospite in una casa non mia: non ho le chiavi dell’appartamento e non posso aver intestato alcun contratto».
Cosa pensi del Sistema di Accoglienza italiano?
Blessed: «La sensazione, vivendo nei Centri di Accoglienza, è di essere un morto vivente. Non puoi prendere per te stesso neanche le decisioni più semplici: qualcuno stabilisce cosa mangi, come ti vesti, con cosa ti lavi. Non puoi muoverti liberamente, soprattutto se il Centro è isolato come a Valleve; non puoi cercarti un lavoro, ma al contempo sei obbligato a fare lavori gratuiti senza che nessuno ti ringrazi, anzi dovendo esser tu a ringraziare».
Wisdom: «Gli europei usano gli africani per business. Non ci viene data la possibilità di capire il sistema italiano, né le leggi che lo regolano; veniamo trasportati in questi Centri dove certo veniamo aiutati sulle necessità basilari, ma non abbiamo la possibilità di capire la nostra situazione e veniamo ricoperti di promesse, soprattutto sui tempi e sulle dinamiche per avere i documenti, che sono false. Sarebbe più giusto che ci venisse lasciata dell’autonomia».
Che impressioni hai ricevuto dalle persone incontrate in strada?
Sia Wisdom sia Blessed sottolineano quanti connazionali irregolari siano presenti sul nostro territorio: «Incontro persone nelle città italiane che vivono in Europa da 4/5 anni senza aver mai avuto un Permesso di Soggiorno, alcuni non sono mai stati convocati dalla Commissione Territoriale, altri hanno ricevuto esito negativo. Senza documenti non possono lavorare, né andare a scuola, né stipulare un contratto d’affitto, però rimangono qui perché tornare indietro è impossibile: la libertà che c’è qui non la ritrovi nella situazione che hai lasciato e il viaggio per l’Europa si è già mangiato tutti i tuoi risparmi e ha riempito la tua famiglia di aspettative». Continua a leggere