Rivolte e fughe dalla segregazione italiana

Ancora una volta solo le rivolte, le proteste e fughe riescono a spezzare la cortina di isolamento e il muro di silenzio che circondano il brutale funzionamento quotidiano del sistema istituzionale di selezione e trattenimento delle persone migranti. Un sistema che è costituito non solo dai CPR ma anche dai sempre più numerosi luoghi di internamento – hotspot, navi quarantena, CARA, centri per minorenni, centri di quarantena – dove vengono segregate le persone che sono riuscite ad approdare in Italia. Senza il clamore suscitato dalle proteste e dalle evasioni, le uniche notizie presenti sui media e nell’ipocrita dibattito politicista sarebbero esclusivamente quelle relative agli sbarchi, soprattutto a Lampedusa. Su ciò che avviene dopo gli approdi, il nulla più assoluto, dei lager in Italia non si deve parlare.

Questo apparato che stritola le vite di migliaia di persone viene purtroppo messo realmente in discussione, contrastato e sabotato solo da chi ha la sfortuna di esserne prigionierx: il resto della società assiste indifferente all’apartheid fatto legge, e non si riesce ad attribuire all’esistenza di questo dispositivo di esclusione la responsabilità di etichettare come irregolari centinaia di migliaia di persone, per sottoporle a un continuo ricatto, alla paura della reclusione e deportazione, allo sfruttamento più crudele. Durante quest’anno e mezzo di pandemia i luoghi di reclusione sono addirittura aumentati e continuano a imprigionare migliaia di persone in condizioni igieniche e sanitarie disastrose, mettendo ancora di più a rischio la loro salute, mentre nel resto del paese si dibatte di vaccinazioni, green pass e ritorno “alla normalità”. Come è avvenuto in precedenza durante le analoghe rivolte nelle carceri, l’unica sicurezza, per chi è reclusx, è la libertà, che si conquista con la rivolta e la fuga.

Riportiamo di seguito alcuni degli avvenimenti che hanno riguardato questi luoghi nel corso dell’ultimo mese.

8 luglio. Nel Cara di Isola di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, un gruppo tra le 60 e le 100 persone, segregate nel centro in attesa della deportazione insieme ad altre 1.100, riesce a scappare utilizzando le brande dei letti per scavalcare le recinzioni. Nei giorni successivi alcune verrano catturate e riportate nel centro. In un comunicato, un sindacato di polizia scrive “Nella struttura, attualmente, ci sono circa 1200 migranti a fronte di 35 appartenenti alle Forze di Polizia: la struttura sta letteralmente scoppiando, le fughe sono ormai all’ordine del giorno e gli agenti non riescono più a gestire la situazione che ormai è totalmente fuori controllo.”

9 e 10 luglio. Nella prima settimana di luglio vengono trasferite da Lampedusa all’hotspot di Taranto circa 300 persone, tra le quali molte minorenni, per procedere a un’ulteriore quarantena e all’identificazione. Alcune delle persone risultano positive al covid19 ma vengono segregate insieme alle altre, ammassate nell’hangar dove ha sede l’hotspot. Questa deliberata decisione delle autorità provoca ovviamente l’estensione del focolaio a 43 persone, e anche un paio di poliziotti addetti alla sorveglianza risulteranno positivi al virus. Cominciano le proteste, che sfociano, durante la notte tra il 9 e il 10 luglio, in un’evasione di massa. Circa 100 minorenni riescono a sfondare la rete di recinzione interna che separa il lager dalla zona amministrativa, scavalcare il cancello, travolgere le guardie che cercano di fermarli e, almeno in 67, a fuggire, tra i quali diversi minori. Il giorno successivo la scena si ripete, questa volta con meno fortuna.
Nel solito comunicato, i sindacati delle guardie riportano una pericolosissimo precedente, l’uso di armi da fuoco contro dei minorenni in fuga: “L’ultimo episodio, poi, è particolarmente grave: nel corso dell’ennesima rivolta scoppiata all’interno del centro di temporanea accoglienza – una struttura “leggera” che avrebbe dovuto registrare il solo passaggio di un numero limitato di migranti e per i soli fini identificati da espletare nel massimo di 72 ore, almeno questa era la originaria classificazione che aveva dato l’allora esecutivo di governo e Bruxelles – un nostro operatore della Polizia di Stato è stato costretto a esplodere due colpi d’arma da fuoco a scopo intimidatorio per sottrarre una collega da un’aggressione fisica per la quale è stato necessario ricorrere alle cure mediche. Una sorta di accerchiamento posto da decine di migranti che tentavano di fuggire in massa dalla struttura, scavalcando e distruggendo la inqualificabile recinzione metallica posta sul perimetro che rende ancor più inadeguata quella struttura ad una permanenza prolungata dei migranti clandestini.
La situazione rimane gravissima e richiede interventi drastici e risolutivi anche perché attualmente, la struttura è più simile ad un “lager” che ad un centro di prima accoglienza e identificazione, in cui, in larga parte sono tutt’ora presenti minori stranieri non accompagnati, vulnerabili sotto l’aspetto psicofisico e diverse decine di essi, positivi al covid-19, convivono all’interno del centro con i soggetti non affetti dal virus, in condizioni che riteniamo per nulla normali. Le fughe di massa, sono ormai ricorrenti.”

15 e 16 luglio. Il centro “Villa Sikania” a Siculiana, in provincia di Agrigento, viene da tempo utilizzato per recludere, anche per mesi, i minorenni migranti non accompagnati. Dopo varie e quotidiane proteste inascoltate per reclamare un trasferimento e/o la libertà, e dopo aver concluso il lungo periodo di quarantena, per due giorni consecutivi tentano la fuga. Il primo giorno riescono a evadere in settanta e il giorno successivo in 10. Dopo una caccia all’uomo e il rastrellamento nelle campagne e nei paesi circostanti, 40 persone vengono catturate.

18 luglio. Nell’hotspot di Pozzallo, in provincia di Ragusa, il 18 luglio erano presenti 134 persone. Alcune di queste si sono organizzate per porre fine alla reclusione ed evitare la deportazione, accatastando i materassi di gommapiuma dei letti a castello, ai quali hanno poi dato fuoco. Nel caos che si è creato 36 persone sono riuscite a fuggire, e solo sette sono state in seguito riprese. Il capannone centrale del campo di concentramento è stato gravemente danneggiato ed è inagibile, costringendo i gestori a trasferire 20 persone in una tendopoli a Cifalì, e a riutilizzare in fretta e furia un altro capannone abbandonato, in precedenza utilizzato per segregarvi le donne migranti.

E arriviamo a questi ultimi giorni, con più di 1.300 persone costrette nell’hotspot di Lampedusa. 300 persone sono in via di trasferimento a Crotone (nel già sovraffollafo CARA?) e altre 150 sulla nave quarantena GNV Adriatico. Il 27 luglio scade il bando governativo per il noleggio di altre 5 unità navali: su questi lager galleggianti continuano le proteste, l’ultima di cui si ha notizia, grazie solo ai video che arrivano dalle persone imprigionate, riguarda uno sciopero della fame a bordo di una delle navi GNV.
Solidarietà a chi lotta!

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Chiamata alla carovana resistente “por la vida” alla frontiera del Monginevro

Fonte: Passamontagna

Alla frontiera delle Alpi occidentali il confine fra chi gode di diritti e privilegi sistemici e chi ne è esclusə non è solo geografico: è l’espressione della logica del profitto concretizzata in pratiche securitarie, respingimenti, violenze di genere, abusi, detenzioni arbitrarie, deportazioni e repressione. Per questo chiamiamo tuttə a partecipare e costruire attivamente qualche giornata di resistenza, scambio e condivisione di pratiche e lotte su questo pezzo di frontiera.
Attenzione: il campeggio non è autorizzato. Partecipare significa assumersi responsabilità personali e collettive.
Al momento, nonostante stiamo aspettando la conferma dell’arrivo della delegazione zapatista continuiamo a fare tutto il possibile per dare loro l’opportunità di unirsi a noi e di essere accoltə in questo territorio.

Il campeggio è auto-organizzato. Questo significa che ogni contributo è benvenuto e anche un certo livello di auto-organizzazione apprezzato. Cerchiamo di essere il più possibile creativə e propositivə per la buona riuscita del campeggio. Questo è quello che puoi fare:

Vieni equipaggiatə [Porta la tua: tenda, torcia, scarpe per camminare, strumenti vari]

Fare proposte [Laboratori, momenti di condivisione, performance artistiche, pasti comuni…]

Fai girare la voce [Nota bene: vogliamo che il campeggio sia il più possibile uno spazio sicuro per ogni soggettività. Si prega di evitare di far circolare l’invito alle persone sbagliate. No sessismo, razzismo, autoritarismo, no polizia]

Delle cucine solidali a prezzo libero forniranno i pasti.

I workshop sono stati pensati come laboratori “pratici” per condividere saperi e buone pratiche.

Le discussioni invece si vorrebbero come momento di confronto tra vari gruppi/collettivi/singoli su pratiche di lotta e riflessioni/idee più che un racconto di come funziona nel proprio territorio. Invitiamo tuttə a ragionarci prima delle chiacchiere!

Freedom, Hurriya, Libertà!

PROGRAMMA

CAROVANA RESISTENTE TRA LE ALPI Continua a leggere

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Saluzzo – Siam mica l’Alabama…diciamo basta allo sfruttamento! Manifestazione venerdì 16 luglio

Fonte: Enough is Enough – braccianti in lotta Saluzzo

SIAM MICA L’ALABAMA….DICIAMO BASTA ALLO SFRUTTAMENTO!
+++ MANIFESTAZIONE VENERDì 16 LUGLIO, ORE 9, PARCO DI VILLA ALIBERTI, SALUZZO ++++

Scendiamo in piazza per il salario, la casa e i documenti!
Prosegue la raccolta della frutta nelle campagne saluzzesi: ci avviciniamo al momento il cui avremo il culmine di manodopera impiegata nella raccolta. Terminati mirtilli e piccoli frutti, recentemente impiantati sul territorio, è il momento delle mele e delle pesche.
La musica si ripete da anni: si lavora tutto l’anno, migrando da sud a nord e poi se non si riesce a trovar di meglio di nuovo a sud, dai ghetti ad altri alloggi di fortuna, senza sussidi o protezioni, continuamente ricattati. Il contratto nazionale e quello provinciale vengono continuamente disattesi, le paghe arrivano anche ad un paio di euro in meno l’ora rispetto ai già risicati minimi. Le giornate segnate in busta paga, così come la durata dei contratti, sono molto inferiori di quanto lavorato. Senza le giornate in buste paga non si può accedere alla disoccupazione agricola, nè si può richiedere il bonus per gli operai agricoli, previsto dall’ultimo decreto Sostegni. Magari, quando le giornate in busta coincidono con quelle lavorate, il lavoratore è costretto a ridare indietro parte del salario (1).
Senza giornate in busta paga è spesso anche più difficile rinnovare il proprio permesso di soggiorno. Perdipiù, i lavoratori delle campagne sono ancora in attesa di una risposta alle domande di Sanatoria del 2020, e vista l’emergenza sanitaria, anche di un vaccino. Non esistono in Italia protocolli uniformi per garantire a chi è sprovvisto di tessera sanitaria (e magari anche di permesso di soggiorno) la copertura vaccinale, e anche laddove si approntano campagne di immunizzzione per i lavoratori agricole, queste sono demandate al “buon cuore” delle aziende presso cui sono regolarmente ingaggiati, con le ovvie conseguenze del caso.
Il territorio agricolo che ha Saluzzo come suo centro principale si riconosce, come altri in Italia, per la diffusa emergenza abitativa che si ripete ogni anno nel periodo di raccolta.
Le gelate di marzo hanno ridotto l’arrivo di manodopera ma non lo hanno impedito. Proprio nel comune di Saluzzo si concentrano gli stagionali senza dimora. I posti li conosciamo: il parco di villa Aliberti, uno dei pochi luoghi di dimora e socialità concesso ai lavoratori stagionali, assieme allo spiazzo antistante il cimitero e il retro del Penny Market.
Lo scorso anno, in risposta alla manifestazione dei braccianti del parco, fu firmato un protocollo tra i governi locali, le associazioni datoriali e le forze dell’ordine per un progetto di accoglienza diffusa tra tutti i Comuni. Continua a leggere

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Bruxelles – 450 sans papiers da 40 giorni in sciopero della fame per la regolarizzazione

Oramai da oltre un mese (40 giorni), più di 450 persone “sans papiers” sono in sciopero della fame in tre diverse occupazioni della città di Bruxelles. “Le nostre domande di regolarizzazione si trascinano per degli anni. Decisioni molto importanti concernenti la nostra vita sono trattate in maniera arbitraria. Quando una domanda è respinta, la ragione spesso non è chiara. Quando facciamo appello la procedura dura di nuovo degli anni”. Gli.le occupanti chiedono, dunque, procedure immediate di regolarizzazione di tutti e tutte le persone senza documenti (si stima che siano 150.000) e per il futuro l’elaborazione di criteri trasparenti, duraturi e rapidi, con una commissione di valutazione delle domande di soggiorno indipendente. Dall’inizio della crisi sanitaria non si contano le iniziative di diversi collettivi e persone sans papiers. Cortei, catene umane, presidi, appelli sulla stampa, incontri con i partiti politici hanno messo in evidenza la situazione di precarietà e sfruttamento in cui versano da anni migliaia di persone, migliaia di lavoratori e lavoratrici. Tutto ciò non è stato sufficiente a ottenere alcun tipo di risposta da parte di istituzioni e governo. In gennaio si è deciso pertanto di continuare la lotta procedendo all’occupazione della chiesa del Béguinage, nel centro di Bruxelles, e di due spazi delle università ULB e VUB. Cinque mesi più tardi, il 23 maggio, di fronte, al muro di silenzio del Segretario di Stato all’Asilo e all’Emigrazione (membro del partito cristiano fiammingo CD&V), gli.le occupanti han deciso l’inizio dello sciopero della fame a oltranza come mezzo di pressione sul governo. Lo scorso 22 giugno alcuni.e solidali hanno occupato l’Ufficio per gli stranieri di Bruxelles per richiedere un appuntamento con il direttore generale. L’incontro non ha avuto luogo e si è proceduto allo sgombero con l’uso di un forte dispositivo di forze dell’ordine.  Qualche giorno prima, la sede del PS era stata occupata per 18 ore. Migliaia di persone hanno anche partecipato a un corteo che ha toccato tutte le occupazioni di Bruxelles. Altre azioni di solidarietà sono previste nei prossimi giorni.

Le associazioni mediche che dall’inizio offrono supporto agli scioperanti non cessano di lanciare allarmi sulle loro condizioni di salute. Come ulteriore azione di protesta alcune persone sans papiers hanno deciso di cucirsi la bocca. La situazione è al limite. Il segretario di Stato continua a ripetere di non voler procedere a una regolarizzazione collettiva, né dei.delle sole scioperanti, né tanto meno a una revisione radicale delle norme e delle procedure di regolarizzazione. Dall’altro lato una serie di personalità, istituzioni, partiti, sindacati, associazioni che hanno espresso la loro solidarietà spaccano il fronte politico, presentandosi spesso e volentieri, senza un reale consenso dei.delle diretti.e interessate.i,  come mediatori con le autorità politiche. La lotta degli e delle occupanti, tuttavia, va avanti. (Per approfondire: gruppo fb “L’union des sans papiers pour la regularization“)

Solidarietà con i.le sans papiers!

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Campeggi resistenti. Dal Messico alle Alpi contro le frontiere!

Fonte: Passamontagna

15-17 Luglio – Ventimiglia/Val Roya

22/27 Luglio – Claviere/Briançon/Gap

Fine agosto/settembre – Giornate di mobilitazione alle frontiere svizzere

Settembre – Giornate di mobilitazione alla frontiera franco-italiana in Valsusa

Per aggiornamenti segui i siti di movimento!

 

CAMPINGS DE RESISTANCE. DU MEXIQUE AUX ALPES CONTRE TOUTES LES FRONTIERES!

15/17 Juillet – Vintimille/Val Roya

22/27 Juillet – Clavière/Briançon/Gap

Fin Aout/September – Journées de mobilisation aux frontières suisses

Septembre – Journée de mobilisation à la frontière franco-italienne du Val de Suse

Pour plus d’informations suivre les mises au jour sur les sites d’info autonomes

 

RESISTANCE CAMPINGS. FROM MEXICO TO THE ALPS AGAINST ALL THE BORDERS!

15/17 July – Ventimiglia/Val Roya

22/27 July – Clavière/Briançon/Gap

End of August/September – mobilization days at the swiss borders

September – mobilization days at the french-italian border of Susa Valley

For more information, follow updates from independent websites!

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CAMPAMENTOS RESISTENTES. DE MEXICO A LOS ALPES CONTRA TODAS LAS FRONTERAS!

15-17 Julio – Ventimiglia/Val Roya

22-27 Julio – Claviere/Briançon/Gap

Final de Agosto/Septembre – Joranadas de mobilitacion en las fronteras suizes

Septiembre – Joranadas de mobilitacion en la frontera franco-italiana en Valsusa

Para actualizaciones sigue las paginas de movimiento

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Palestina – Nessun Pride senza dignità

tradotto da alQaws

24 giugno 2021

Il gay pride alle origini era una rivolta guidata da attivist queer e trans nere, indigene, of colour in quel luogo conosciuto come gli stati uniti negli anni ’60. Quest attivist si sono rivoltat contro decenni di brutalità e persecuzione poliziesche, reclamando le strade come luogo di liberazione attraverso le proteste. Il primo pride è stato un riot ma anche un’espressione di cura e supporto comunitari che l attivist queer e trans hanno creato come risultato della loro esclusione dalla società.

Oggi, il pride è stato depoliticizzato e le sue radici – che si innervano nell’operato di attivist queer e trans – cancellate. Al suo posto, le politiche dell’orgoglio sono dominate oggi da voci bianche, cisgender, maschili e borghesi. Questa cancellazione è una forma di violenza contro l’eredità di coloro che si ripresero le strade, chiedendo dignità e auto-determinazione. Il pride non ha mai avuto a che fare con le multinazionali che sponsorizzano le nostre manifestazioni, o con la celebrazione dell’inclusione delle persone gay e trans nelle forze armate. La sua origine risiede nella resistenza allo stato di oppressione e nella lotta alla violenza razziale, sessuale e di genere.

Il termine “pride”, e quelli connessi di “coming out” e “visibilità queer”, sono emersi all’interno del contesto politico e culturale specifico del nord america e dell’europa. Oggi, questi termini vengono utilizzati come strumenti imperialisti di salvezza per misurare i cosiddetti livelli di emancipazione LGBTQ in giro per il mondo. Anche se questi termini sono diventati il modo dominante di descrivere le esperienze queer e trans, l attivist del sud globale hanno mostrato che queste parole non sono universalmente significative o rilevanti per descrivere le nostre esperienze. È problematico imporre i concetti di pride, coming out e visibilità come unità di misura di base o come l’aspirazione politica delle comunità LGBTQ di tutto il mondo.

Durante la recente esplosione delle lotte per la liberazione della Palestina contro la violenza coloniale degli insediamenti israeliani, i sionisti hanno inondato le nostre reti social con affermazioni quali “provateci a organizzare un pride a Gaza”. Queste frasi sono caratteristiche del pinkwashing e vengono usate per delegittimare la sollevazione anti-coloniale palestinese. Queste affermazioni si inseriscono in un contesto più ampio di razzismo strutturale nel quale israele viene descritta come illuminata e protettrice dei diritti gay, mentre le persone Palestinesi, specialmente quelle di Gaza, vengono uniformemente descritte come omofobe e, di conseguenza, meritevoli di morte e espulsione dalle nostre terre.
Commenti come questi non sono frutto di una preoccupazione genuina per le vite queer e trans e per la violenza con cui ci confrontiamo. A prescindere dalle dinamiche interne alla società palestinese, il maggiore impedimento per qualsiasi pride in Palestina rimane il colonialismo israeliano e il crudele assedio che ha ghettizzato e separato Gaza dal resto della Palestina. Ogni volta che come palestinesi prendiamo collettivamente parola in difesa dei nostri diritti, veniamo bombardat dall’esercito colonialista israeliano e silenziat dai media mainstream. L’esperienza queer palestinese ci insegna quanto il pride senza una liberazione totale sia un’idea vuota, insignificante e ingannevole.

I sionisti sottolineano il fatto che il pride di tel aviv rappresenti una prova dell’impegno israeliano per la liberazione queer. In realtà, il pride di israele è una strategia propagandistica di stato finalizzata a “ripulire” i crimini coloniali israeliani ai danni dei palestinesi, queer e non queer indifferentemente. Il pinkwashing è una forma di violenza coloniale che mira a convincere il mondo che i queer palestinesi non hanno un futuro nella nostra terra e tra le nostre famiglie. E che i nostri colonizzatori sono ora i nostri “salvatori”.
Essendo strettamente collegato alla violenza coloniale continua contro le persone palestinesi, il pride di tel aviv non è in alcun modo un simbolo di progresso o liberazione queer. Si svolge nella città palestinese di Yaffa e nei villaggi circostanti luogo di pulizia etnica, e il suo successo dipende dalla cancellazione delle terre, delle vite e delle voci palestinesi.

Ogni volta che come palestinesi mostriamo un qualsiasi sentimento di orgoglio per la nostra identità o un senso di appartenenza indigena/autoctona, veniamo brutalmente repress dallo stato israeliano. In questo contesto, come queer palestinesi non abbiamo il privilegio di separare la nostra sessualità dalla violenza coloniale che determina le nostre vite nel quotidiano.
Durante il mese del pride, vogliamo continuare a costruire spazi impegnati nell’abolizione di tutte le forme di oppressione. All’interno di questi spazi, potremo forgiare forti legami di solidarietà e costruire un esistente di dignità e libertà.
Abolizione degli stati coloniali, liberazione delle terre indigene, riprendiamoci il pride

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Tunisia: espode di nuovo la rabbia dei quartieri popolari

Dieci anni dopo la rivoluzione del 2010, in Tunisia si continua a lottare contro le violenze poliziesche e un sistema politico che continua a utilizzare la repressione come unico strumento utile a tenere a bada la collera sociale.
L’8 giugno scorso Ahmad Ben Ammar, un uomo di 32 anni di Sidi Hassini, un quartiere della periferia di Tunisi, è morto mentre si trovava in custodia di polizia. Il suo corpo era pieno di ferite e segni di violenza. Il giorno dopo il suo decesso, a margine delle manifestazioni di protesta, un altro giovane ragazzo, Fadi, di 15 anni, è stato aggredito, denudato e pestato dalla polizia. Il video della violenza ha generato un’ondata di proteste, presto diventate una vera e propria rivolta, nei quartieri di Ettadhamen, d’Intilaka e Sidi Hassine, così come in altre città del paese. A unire gli scontri che sono andati avanti per più di una settimana un unico comune denominatore: la sigla ACAB (All cops are bastards).

La violenza poliziesca è un problema sistemico nella Tunisia post-rivoluzionaria. Lo scorso gennaio, in occasione dell’anniversario della rivoluzione, la collera è esplosa in violenze e scontri in diverse città del paese. Alla base delle proteste, l’ennesimo assassinio di Stato, un pastore della città di Siliana, tra Tunisi e Sousse, ucciso dalla polizia. Kasserine, Sidi Bouzid, e qualche giorno dopo Bizerte, Tebourba et Sousse, le periferie di Tunisi e persino l’avenue Bourghiba, hanno visto numerosi giovani e molti minori battersi contro polizia e militari con una intensità tale da ricordare i giorni della rivoluzione del 2011. I manifestanti hanno riportato al centro dell’attenzione la realtà di un paese ormai da anni in piena crisi socio – politica.

L’inizio del mese di giugno ha corrisposto all’aumento del prezzo dello zucchero e dei trasporti pubblici, che si sono aggiunti a quelli dell’acqua potabile e del latte, generando proteste in alcune città del paese. Ma questi sono solo gli ultimi di una serie di aumenti che sono andati di pari passo con la crescita della disoccupazione e al blocco dei salari (110 euro di media). Le politiche dei governi che si sono succeduti negli ultimi dieci anni non hanno fatto altro che aumentare il debito pubblico e impoverire la popolazione condannando giovani e adulti alla precarietà, al lavoro nero e all’emigrazione. I negoziati in corso per ottenere un prestito di 3,3 miliardi di euro dal FMI sono solo l’ultima tragica scelta politica che avrà delle conseguenze disastrose sulle persone non abbienti come dimostrato in altri paesi dell’area (soprattutto per ciò che concerne il taglio dei sussidi di Stato su energia, petrolio e alimenti).

La giustizia sociale, uno degli slogan della rivoluzione del 2011, è al cuore delle proteste che periodicamente si verificano nelle periferie urbane delle grandi città o nelle aree più marginali del paese. Chi protesta denuncia le ineguaglianze economiche e sociali che la rivoluzione non è stata in grado di eliminare aumentando il solco tra delle élites arroccate nelle loro posizioni di potere e nuove generazioni vittime di politiche pianificate volte all’emarginazione. Disoccupazione, vulnerabilità, discriminazione, violenza, forme di dominazione cumulative e intersecate, marginalizzazione economica e sociale, ghettizzazione degli spazi sono gli elementi contro cui una generazione eteroclita di giovani ha deciso di lottare. La reazione alle violenze poliziesche di gennaio, come quella di questi giorni, rappresentano dei veri e propri atti di ribellione contro tutto il sistema politico
(forze islamiste incluse) che basa la sua legittimità su tre elementi : uso incondizionato della violenza e completa autonomia degli organi di polizia; messa in scena elettorali; sostegno della comunità internazionale. Quest’ultimo aspetto è fondamentale per comprendere come dal Marocco all’Algeria, dall’Egitto al Sudan, i movimenti di contestazione contro i sistemi di potere in carica fatichino ad affermarsi o siano brutalmente repressi. In effetti, il sostegno tecnico e materiale europeo alle forze di sicurezza tunisine viene giustificato dalla lotta al terrorismo o in maniera particolare negli ultimi tempi dal contrasto all’emigrazione. A partire dal 2015, l’Unione Europea ha concluso una convenzione di finanziamento con il ministero degli Interni tunisi o d’appoggio alla riforma e alla modernizzazione del settore della sicurezza, per 23 milioni di euro. Anche i governi italiani da anni stanziano fondi per il controllo delle frontiere tunisine. Il più recente finanziamento è del dicembre 2020, con 8 milioni di € destinati alla manutenzione delle motovedette della guardia costiera.

I/le giovani tunisin* sono stretti tra la disoccupazione e la repressione nel proprio paese, e l’impossibilità di emigrare altrove legalmente. L’ultimo anno e mezzo è stato un periodo record per il numero di persone fermate in mare dalla guardia costiera. Dal 1° gennaio al 15 giugno sono state 6.659 le persone fermate mentre cercavano di emigrare, arrestate dalla guardia costiera, e 2.817 gli arrivi in Italia. Almeno un centinaio di persone sono morte o disperse quest’anno lungo la rotta Tunisia-Italia.
Il governo tunisino si è non solo dimostrato indifferente alle decine di connazionali morti o dispersi negli ultimi mesi nel Mediterraneo o all’arrivo in Europa, che i familiari continuano a cercare disperatamente, ma è anche complice della detenzione di migliaia di altri tunisini nei lager europei e della loro deportazione di massa.

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Torino – Sabato 5 giugno presidio al CPR e aggiornamenti dall’interno

Fonte: No CPR Torino

TORNIAMO SOTTO LE MURA DEL CPR

SABATO 5 GIUGNO ORE 17

PRESIDIO SOTTO IL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI

( Contemporaneamente con il presidio chiamato sotto il Cpr di Milano di via Corelli alle ore 17 )

I CPR sono luoghi in cui vengono rinchiuse le persone senza documenti in attesa di essere identificate ed espulse. Campi di internamento contemporanei creati per rendere estremamente ricattabili coloro che non hanno i documenti in regola;  un’arma nelle mani della politica, dei padroni di case, del caporalato agricolo, di tutti coloro che sulla pelle di chi non ha la carta giusta possono puntare la carica di un feroce sfruttamento.

I CPR non vanno riformati, ristrutturati, resi più umani e vivibili…

I CPR NON DEVONO ESISTERE.

VOGLIAMO LOTTARE CONTRO QUESTE GALERE PER SENZA DOCUMENTO FINCHÉ NON NE RIMARRANO CHE MACERIE. I CPR VANNO DISTRUTTI E, CON LORO, TUTTA LA POLITICA DI GESTIONE E CONTROLLO DEI FLUSSI MIGRATORI.

Musa Balde, un ragazzo di 23 anni originario della Guinea, è morto in una cella di isolamento all’interno del Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di corso Brunelleschi a Torino nella notte tra il 22 e il 23 maggio. La tragica storia di Musa è la storia della violenza dello Stato e delle sue innumerevoli frontiere dove ogni giorno muoiono centinaia di persone. La morte di Musa è riuscita a scuotere le coscienze dei più e riportare l’attenzione sulla detenzione amministrativa e sul razzismo strutturale che viviamo. Ma sappiamo bene che non è stato un episodio isolato, una fatalità, ma è la NORMALITA’ all’interno dei CPR e in tutti i luoghi di frontiera dove ogni giorno muoiono centinaia di persone.

Il CPR E LE FRONTIERE UCCIDONO.

Ricordiamo chi sono i responsabili delle condizioni cui sono costretti i reclusi dentro il Cpr di corso Brunelleschi e quindi i responsabili della morte di Musa Balda:

-la multinazionale francese GEPSA, appartenente al gruppo ENGIE Energia, che da anni lucra sulla pelle dei detenuti in tutta Europa, è l’ente gestore.

-Chi dovrebbe valutare se le condizioni di salute dei reclusi sono compatibili con la detenzione è l’ASL territoriale di via Monginevro e l’ASL Città di Torino di via San Secondo che sistematicamente chiudono gli occhi sulla condizione di salute dei reclusi non intervenendo mai.

-Lo Stato è responsabile delle condizioni dei reclusi in tutti i luoghi di detenzione ed è responsabile di tutte le morti nelle frontiere, create con l’obiettivo di selezionare, dividere ed eliminare le persone ritenute indesiderabili e non produttive da quest’ordine sociale.

I ragazzi dentro il CPR hanno bisogno di tutta la nostra forza e complicità.

Non facciamo cadere l’attenzione su ciò che accade quotidianamente dentro quelle mura.

Dobbiamo continuare a lottare contro questi luoghi infami, al fianco dei reclusi, cercando il più possibile di dare voce a chi non la ha.

Vogliamo far sentire la nostra solidarietà alle persone ancora rinchiuse nei CPR!

Al fianco dei reclusi in lotta che hanno scelto di non abbassare la testa!

TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE!

AGGIORNAMENTO DAL CPR DI TORINO del 31.05.2021

I racconti dei ragazzi che abbiamo sentito in questi giorni testimoniano con rabbia la convinzione che quello che è avvenuto nella notte tra il 22 e il 23 maggio al loro compagno non è un suicidio ma è stato provocato dalla polizia che è intervenuta mentre Musa, all’interno di una cella di isolamento, chiedeva disperatamente l’intervento di un medico per essere soccorso. Continua a leggere

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Milano – Sabato 5 giugno presidio al CPR di via Corelli

Riceviamo e diffondiamo. Per scriverci: hurriya [at] autistici.org

La gestione dell’immigrazione: un circuito infame e mortifero

L’eccidio che si consuma da anni alle frontiere è frutto delle politiche razziste funzionali al capitale saccheggiatore di vite e di risorse. Nessuno mette a fuoco l’unica causa di queste morti: il divieto di movimento per chi arriva dai paesi da depredare. Quando si vedono bambini morti sulle spiagge o il numero delle vittime di uno degli ennesimi naufragi è troppo grande per voltare la testa dall’altra parte, allora qualche turbamento prende le anime belle democratiche e due o tre parole di cordoglio escono dalle loro bocche, per un giorno, due, poi più nulla. Si passa ad altro e tutto continua come prima. Solo nei primi mesi del 2021 sono già 700 i morti nel Mediterraneo, per quanto è dato sapere. Ma chissà quanti barconi affondano continuamente senza lasciare traccia. Dal 2013 al 2020 i morti e i dispersi nel mare davanti casa nostra sono stati quasi 22 mila. Almeno 1.773 emigranti sono morti alle frontiere interne dell’Europa. Circa 3.174 persone sono morte, dall’inizio del 2020, nelle rotte migratorie mondiali. Senza una lotta contro le “politiche migratorie” degli stati, le immagini delle morti alle frontiere, la notizia dei soprusi e delle torture nei campi d’internamento fuori o dentro l’Europa, produrranno forse qualche senso di colpa, ma senza atti conseguenti. “Le immagini dei bambini morti sono inaccettabili” dice Draghi, ma non sono le immagini a essere inaccettabili, è la loro morte che lo è. Come lo sono le morti nei Centri per il Rimpatrio, ultimo infame anello del circuito dell’esclusione per gli emigranti sgraditi. Al CPR di Torino è morto un ragazzo di 23 anni, Musa Balde, che dopo aver subito un meschino pestaggio a Ventimiglia da parte di tre italiani è stato incredibilmente rinchiuso in un CPR invece di essere soccorso e protetto. Là ha trovato altri aguzzini? I pestaggi da parte della polizia all’interno di quei centri non sono certo un evento raro, prova ne sia l’ultimo nel tempo avvenuto il 25 maggio a Corelli. Oltre a essere rinchiusi senza neppure aver commesso reati, in spazi lisci come le più inquietanti celle di isolamento in carcere, ricevendo cibo avariato e nessuna assistenza né sanitaria né legale, quando si “permettono” di protestare ciò che li aspetta sono bastonate, arresti e deportazioni. Dalla prima legge Martelli del 1990 in materia di rifugiati e profughi, fino ad arrivare all’ultimo pacchetto sicurezza Lamorgese del 2020, passando per la Turco-Napolitano del 1998 che istituì i centri di reclusione per i senza documenti e la Bossi-Fini con le sue spietate modifiche, la “questione migratoria” è sempre stata affrontata come un problema di ordine pubblico ed economico. Il meccanismo fondamentale di controllo dell’immigrazione rimane la politica dei flussi. Le ricadute per il sistema sono evidenti: se si agisce una spietata repressione contro gli immigrati li si tiene sedati e ricattati, uniti potrebbero creare sconvolgimenti difficilmente gestibili, e diventerebbe più semplice far accettare norme restrittive della libertà anche per tutti gli altri. Il razzismo è insito nella pretesa di offrire accoglienza, quando non esiste per queste persone la libertà di muoversi. Decretando quali individui possano e quali no raggiungere una qualunque parte del mondo, si aprono campi vastissimi per guadagnare soldi e potere sulla pelle degli indesiderati. Gli emigrati sgraditi diventano una risorsa da mettere a profitto per trafficanti di varia specie. Da chi gestisce centri ipocritamente definiti d’accoglienza, lager da cui non si può uscire o luoghi in cui attendere improbabili documenti liberatori, da chi fornisce servizi per cibo e vestiario, sempre di pessima qualità, a chi si ricava uno stipendio come controllore, mediatore o qualunque figura possa impersonare per ritagliarsi una propria quota di profitto nella divisione della torta.
Un colossale affare che gareggia con altri considerati deprecabili, quelli d’armi e droga.

In solidarietà con i reclusi e i rivoltosi dei CPR, contro i Lager di Stato
Invitiamo al Presidio che si terrà il 5 giugno dalle 17 al CPR di Milano in via Corelli

Punto di Rottura
Fb: Punto di Rottura-Contro i CPR; mail: puntodirottura@riseup.net

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Resoconto del presidio al CPR di Torino del 25 maggio

Fonte: No CPR Torino

CONTRO I CPR, CONTRO TUTTE LE FRONTIERE.

Ieri pomeriggio più di trecento persone si sono presentate sotto le mura del CPR di Torino.

Tantissime individui, collettivi e realtà che hanno voluto urlare la propria rabbia contro la prigione per senza documenti presente nella nostra città.

La tragica storia di Musa Balde è riuscita a scuotere le coscienze dei più e riportare l’attenzione sulla detenzione amministrativa e sul razzismo strutturale che viviamo.

Un presidio partecipato in cui si sono susseguiti interventi, grida e cori per provare a rompere l’isolamento imposto dallo Stato e l’invisibilizzazione che vivono quotidianamente i reclusi.

La polizia, da subito, si è schierata in assetto antisommossa all’interno del centro posizionandosi davanti alle aree per minacciare i ragazzi cercando di limitare ogni forma di comunicazione con l’esterno.

Per circa due ore complici e solidali hanno raccontato le testimonianze dei ragazzi dentro raccolte in questi giorni sostenendo con determinazione lo sciopero della fame che coraggiosamente stanno portando avanti da domenica mattina: contro le condizioni cui sono costretti, contro la narrazione che stanno portando avanti media e istituzioni sulla morte del loro compagno.

Successivamente, una serie di interventi fatti davanti alle mura all’altezza delle celle d’isolamento (“Ospedaletto”) dove Musa è morto, hanno ricordato che nel 2019, nella stessa sezione, un altro ragazzo, Faisal, era morto da solo nel totale abbandono.

Subito dopo, al suono dei tamburi, si è formato un corteo che percorrendo le strade del quartiere San Paolo ha raccontato alle persone affacciate ai balconi o in fila davanti ai negozi che la morte di Musa non è stato un episodio isolato, una fatalità, ma è la NORMALITA’ all’interno dei CPR e in tutti i luoghi di frontiera dove ogni giorno muoiono centinaia di persone.

Il CPR UCCIDE. Non è solamente uno slogan.

In strada le persone hanno voluto gridare inoltre chi sono i responsabili della morte di un ragazzo di 23 anni.

Il CPR di Torino è gestito dalla multinazionale francese GEPSA, appartenente al gruppo ENGIE Energia, che da anni lucra sulla pelle dei detenuti in tutta Europa.

E’ GEPSA a gestire la consegna dei pasti che puntualmente vengono forniti maleodoranti, immangiabili e imbottiti di psicofarmaci.

E’ GEPSA a gestire il servizio sanitario pagando i medici che dovrebbero soccorrere i reclusi impedendo continuamente alle ambulanze del 118 di entrare nel CPR durante le emergenze.

E’ GEPSA che fa sparire le cartelle cliniche e che esercita ogni giorno pressioni sul personale che lavora all’interno del CPR con lo scopo di incrementare i profitti fornedo il servizio minimo.

E’ GEPSA IL RESPONSABILE DELLA MORTE DI MUSA.

Chi dovrebbe valutare se le condizioni di salute dei reclusi sono compatibili con la detenzione è l’ASL territoriale di via Monginevro e l’ASL Città di Torino di via San Secondo che sistemeticamente chiudono gli occhi sulla condizione di salute dei reclusi non intervendo mai.

Anche L’ASL E’ RESPONSABILE DELLA MORTE DI MUSA.

Il corteo di ieri è stato solo l’inizio di una mobilitazione contro la detenzione amministrativa.

I ragazzi dentro il CPR hanno bisogno di tutta la nostra forza e complicità, non possiamo lasciarli da soli nelle mani dello Stato.

Dopo il polverone mediatico sulla morte di Musa non facciamo cadere l’attenzione su ciò che accade quotidianamente dentro quelle mura.

Dobbiamo continuare a lottare contro questi luoghi infami, al fianco dei reclusi, cercando il più possibile di dare voce a chi non la ha.

Fino al giorno in cui di quelle mura non rimarrano che macerie e cenere.

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