Compassione e carità non cambieranno il sistema. Distruggiamo ciò che ci distrugge.

berlinAbbiamo tradotto questi due testi che vi proponiamo, dopo aver passato l’estate intera a pubblicare notizie riguardo le lotte delle persone migranti, interrogandoci sull’efficacia della diffusione di queste notizie nel suscitare solidarietà e complicità attiva.

I testi riportano punti di vista che condividiamo, riflessioni che pur partendo dall’analisi di realtà estere consideriamo vicine al contesto in Italia.

Un flusso continuo di informazione mediatica sta bombardando il nostro quotidiano. Al di là della narrazione, drammatica o avvincente, quanto è importante farsi permeare da una serie infinita di notizie? Quanto determina il nostro agire? Il dolore per la sofferenza altrui, quanto ci blocca e ci relega nella paura e nell’impotenza o nell’accettazione della nostra situazione? Abbiamo bisogno di sapere altro o di vedere altre foto di morti per “metterci in mezzo”, rendere concreta la solidarietà, colpire i responsabili di un sistema d’oppressione a cui, proprio “gli ultimi”, si stanno opponendo con determinazione?

Domande che ci poniamo anche noi che pubblichiamo costantemente su questo blog, nonostante abbiamo chiaro in mente il fine che ci muove.

Dalle frontiere ai centri di detenzione, la costruzione dell’informazione è alla ricerca continua di storie individuali su cui drammatizzare: petizioni sul web, vittimizzazione di alcune persone da iscrivere nelle “categorie a rischio” (e quindi da salvare), foto da Premio Pulitzer di corpi uccisi…fino ad arrivare alle immagini degli applausi di benvenuto per i migranti in arrivo in Germania che dimostrano inequivocabilmente come anche il “Welcome” si sia ritagliato il suo spazio sui media europei.

Mentre siamo coscienti che festeggeremo (costretti a farlo) per ogni vita salvata, per ogni persona liberata dalle gabbie di un Lager, siamo altrettanto convinti e consapevoli che nessun centro di detenzione e nessuna frontiera verrà aperta per decreto, per riforma, per pietà o per compassione da alcuno Stato.

E’ in atto un processo di normalizzazione della repressione che dobbiamo combattere e se le notizie non contribuiscono come una piccola scintilla ad accendere le lotte, allora forse è meglio il buio dell’informazione.

compas1Traduzione da Rabble.org .  Pubblicato il 30 Agosto 2015.

Rabble è un blog con sede a Londra.

Contro la compassione: sulle risposte popolari alla “crisi dei migranti”

Un articolo sulla recente ondata di compassione per le morti dei rifugiati nella Fortezza Europa, e sul perché è necessario, anche per i gruppi di ‘solidarietà’, evitare la trappola di fare appello alla pietà.

La maggior parte della retorica pro-migrazione si basa interamente sull’evocazione della compassione. I media liberali e i gruppi per i diritti dei migranti fanno sempre appello alle corde del cuore nella speranza che ciò possa favorire il sostegno alle “vittime” migranti. Nonostante le buone intenzioni, questo approccio ha generalmente un effetto molto limitato, e finisce per far sentire le persone più depresse, colpevoli e, alla fine, assuefatte e prostate dagli eventi.

Se proprio ha un effetto, la compassione, è quello di generare una cultura della pietà e della filantropia: fare un favore ai più sfortunati del mondo. Pensiamo di mostrare generosità verso gli altri, perché non crediamo sia un nostro problema. Ma è un nostro problema: non solo perché siamo toccati dalla sofferenza degli altri, ma perché le nostre vite sono legate in una miriade di modi dal colonialismo e dalla classe sociale, e perché per far parte di un sistema di “privilegi” e “diritti” – negati agli altri – dobbiamo anche accettare passivamente tutti i compromessi e le richieste che il capitalismo pretende da noi.

La compassione alimenta la passività politica: si tratta di “fare qualcosa di bello” per le persone che si trovano in una brutta situazione, come ad esempio portare i giocattoli ai bambini delle famiglie di Calais. Questi gesti miglioreranno senza dubbio la vita quotidiana delle persone per qualche tempo, ma questa non è solidarietà, in quanto non fa nulla per cambiare la situazione. Con la compassione e la carità non vi è alcuna necessità di impegnarsi consapevolmente sull’argomento in questione; siamo semplicemente incoraggiati a sbarazzarci della nostra roba inutilizzata e/o dei nostri soldi donandoli al ‘problema’. Questo ci permette di non riflettere sul fatto che l’intero sistema delle frontiere, degli stati e del capitalismo è orribilmente opprimente e ci calpesta tutti quanti; che la nostra liberazione è legata a quella degli altri, e che si tratta di una lotta politica che necessita dell’impegno profondo e della partecipazione di ognuno di noi.

L’orientamento verso la compassione determina anche il linguaggio che usiamo: “vittime” invece di “criminali”, “esseri umani” al posto di “animali”, “rifugiati” invece di “migranti”. Alla base di questo linguaggio c’è un desiderio disperato di far sentire le persone dispiaciute per i migranti alla frontiera mostrando che sono meritevoli del nostro sostegno. Ma quando usiamo questi termini inevitabilmente rafforziamo discorsi meritocratici e le problematiche divisioni che questi comportano.

Enfatizzare i casi più disperati ci può far commuovere, ma nello stesso tempo ci aliena da quelle persone: pensiamo di non poter mai veramente capire le loro difficoltà o le condizioni estreme che si trovano ad affrontare. Ad esempio molti sono pronti a sostenere che coloro che soffrono alle frontiere sono “rifugiati, non migranti” – perché anche noi possiamo emigrare per cercare condizioni di vita migliori ma da privilegiati e persone con una vita “normale”, non ci sentiamo “rifugiati” e quindi crediamo che la loro lotta non ci riguardi. Certo, dovremmo riconoscere le differenze di esperienze e di estrazione delle persone, ma nel mostrare situazioni “eccezionali” sminuiamo gli aspetti che abbiamo in comune; come il fatto che – se e quando i migranti raggiungeranno la loro destinazione – i più “fortunati” si uniranno all’esercito degli schiavi salariati. L’ascoltare i continui racconti su persone che si trovano a vivere difficoltà estreme – sia alla frontiera, che in Siria o in Afghanistan – ci insegna ad apprezzare la nostra sorte, per quanto misera possa essere. Ciò a prescindere dal fatto che tutte queste ingiustizie sono il prodotto di un sistema nel quale recitiamo una parte tutti i giorni con le nostre azioni o la nostra passività.

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Tutto tranne la lotta

In un momento in cui le persone soffrono e muoiono alle frontiere della Fortezza Europa in un numero mai visto prima nel recente passato, noi che cosa stiamo facendo? “Facciamo conoscere le loro storie”. Portiamo avanti missioni caritatevoli nei campi profughi. Condividiamo foto di bambini annegati o di corpi ammucchiati nei camion. Ma perché? Ci aspettiamo che qualcun altro faccia qualcosa, in modo da evitare di far qualcosa noi? Quello che stiamo facendo è normalizzare la cultura dello spettatore passivo, così che quando qualcuno fa notare che questa in realtà è una lotta, la risposta più politica sarà la richiesta al governo affinchè trovi una “soluzione”.

Abbiamo bisogno di crescere ed essere realistici. Al governo non frega un cazzo. Il governo non troverà una “soluzione”. Se mai diventerà necessario, potrà fare delle piccole concessioni (ad esempio, quella di accettare una piccola quota di profughi siriani), per mostrare così un’immagine più positiva. Ma non potrà mai aprire le frontiere. Dobbiamo smettere di aspettarci che i nostri genitori surrogati – lo Stato – facciano le cose per noi. Sta a noi, ed è giunto il momento di rendercene conto.

Il riconoscimento di una immensa sofferenza non è sufficiente per porvi fine. La compassione non potrà mai cambiare le cose. La storia dimostra che l’unica forza che potrà mai creare il cambiamento è quella delle persone che lottano contro le strutture di oppressione.

Il confine è una lotta; occorre combatterlo ovunque

Così mi piacerebbe chiedere a quelli/e che portano avanti missioni di beneficenza a Calais nel nome della ‘solidarietà’: quanti di loro stanno lottando contro i confini nel luogo dove vivono? Perché il confine è ovunque, ed è probabilmente anche nel posto dove vivono. Le persone portate via ogni giorno dagli agenti dell’ufficio immigrazione sono alcune di quelle che hanno già affrontato gli eventi orribili che stanno attualmente suscitando tanta compassione. I giovani ragazzi afgani che sono sopravvissuti al viaggio attraverso la Fortezza Europa, che hanno visto persone morire per la strada, che sono stati bloccati negli accampamenti di Calais e che sono riusciti ad andarsene – ebbene sono le stesse persone che vengono prese durante le retate, detenute e deportate dall’ufficio immigrazione.

La frontiera è ovunque. E’ nelle retate all’alba all’interno dei quartieri, nei centri per l’immigrazione come l’Electric House a Croydon ; è nei centri di registrazione per migranti come la Beckett House a London Bridge, è nei centri di detenzione come Harmondsworth e nei centri di espulsione per famiglie come quello di Cedars , è in alcune delle aziende multi-miliardarie che gestiscono questi luoghi, come la Mitie e G4S, è nelle imprese che forniscono i servizi di scorta per i detenuti, come Serco e WH Tours.

Quindi basta con la compassione, cominciamo a distruggere ciò che ci distrugge.

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Traduzione da iwspace.wordpress.com. Pubblicato il 15 Agosto 2015.

L’international women space di Berlino è “un gruppo di donne migranti e rifugiate provenienti da paesi ex-colonizzati” , nato durante l’occupazione da parte dei rifugiati della ex Scuola Gehart-Hauptmann nel dicembre del 2012.

“Siamo qui perchè avete distrutto i nostri paesi”

Abbiamo assistito, sui media mainstream, al crescere della solidarietà da parte dei tedeschi nei confronti dei rifugiati. Sono stati scritti articoli su articoli che descrivono le strutture di accoglienza in diverse parti del paese. Diverse persone stanno creando siti web che offrono alloggio temporaneo ai rifugiati, altre raccolgono vestiti e cibo portandoli ai rifugiati accampati a Berlino davanti al LaGeSo, l’Ufficio di Stato per la Salute e il Welfare.

Sembra il quadro di una situazione che ci aspetteremmo di trovare in Libano, paese che ospita più di 1 milione di rifugiati, o in Grecia, che sta fronteggiando un’enorme crisi economica, per gentile concessione della Germania, ed è ovviamente incapace di offrire qualcosa di più che la solidarietà dei propri cittadini.

La realtà è che invece ci troviamo in Germania, uno dei più ricchi paesi europei, che avrebbe mezzi e strutture adeguate per accogliere i rifugiati, se solo volesse. L’empatia dei cittadini è sempre benvenuta, così come il loro impegno, ma se si ferma al livello della carità siamo finiti come movimento politico. L’impoverimento delle persone che stanno diventando rifugiate non è nuovo e le ragioni sono rintracciabili nella storia e possono essere comprese da coloro che vogliono sapere perché degli esseri umani compiono azioni disperate pur di venire in Europa. Il colonialismo, la schiavitù e il pensiero suprematista bianco sono le cause dell’attuale situazione. Ecco perché la gente sta arrivando in Europa: fuggono da paesi distrutti dalla politica dei paesi occidentali.

Noi, come gruppo politico, guardiamo alla situazione attuale con diffidenza. Stiamo dimenticando le richieste dei rifugiati che hanno lottato politicamente per le strade di questo paese per più di 20 anni. Non si cita più lo slogan “Siamo qui perché avete distrutto i nostri paesi”, forse la campagna più intensa avviata anni fa da gruppi politici auto-organizzati di rifugiati e migranti, come il “Forum dei rifugiati The Voice” e la “Carovana per i diritti dei rifugiati e dei migranti“. Non vi è inoltre alcuna menzione sui media della Marcia di protesta dei rifugiati del 2012, quando un gruppo di rifugiati camminarono per 600 km dalla Baviera a Berlino, crearono il campo di Oranienplatz, nel quartiere di Kreuzberg a Berlino, lottando quotidianamente per i loro diritti rivendicando: la “Chiusura di tutti i Lager”,lo “Stop alle Deportazioni”, l’ “Abolizione dell’obbligo di residenza” e la “Libertà di movimento per tutti”.

Inoltre non si trova quasi nessun riferimento alla Scuola di via Ohlauer – sempre nel quartiere di Kreuzberg – dove un gruppo di profughi sta ancora lottando per il diritto a rimanere nella struttura in cui hanno vissuto dopo l’occupazione nel 2012. E’ passato solo un anno da quando migliaia di cittadini berlinesi hanno sostenuto la resistenza sul tetto della Scuola di Ohlauer e ora sembra che tutto ciò non sia mai successo, in quanto il nuovo approccio punta sull’ondata di solidarietà proveniente dagli individui disposti ad aiutare i rifugiati e combattere contro il LaGeSo, responsabile dell’alloggiamento dei richiedenti asilo nei Lager! Sì, LaGeSo deve essere oggetto di critiche anche dure, ma non deve diventare la protagoniste di questa storia. LaGeSo non può risolvere il problema, in quanto la loro soluzione perpetua un altro problema: l’isolamento dei rifugiati nei Lager, situati in piccoli villaggi nel bel mezzo del nulla, senza accesso ad assistenza sanitaria, istruzione e opportunità di lavoro adeguate. Tutto ciò è stato già detto innumerevoli volte dai gruppi auto-organizzati di rifugiati.

Va ribadito che far diventare LaGeSo il fulcro del problema è una strategia e, se dovesse continuare così, se non prestiamo attenzione, presto vedremo manifestazioni per chiedere a LaGeSo l’apertura di nuovi Lager.

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Lo ricordiamo: chiediamo la chiusura dei Lager! Non il contrario. Chiediamo il diritto per i richiedenti asilo di scegliere dove vivere, e di poter abitare in appartamenti normali come chiunque altro che non cerchi asilo in questo paese. Le persone non vengono in Europa per dipendere dalla carità di singoli individui o finire nelle mani di LaGeSo e del loro sistema di Lager. Chiediamo libertà di movimento per tutti! Crediamo che impegnandoci tutti politicamente nella lotta ci impegneremo nel Movimento del 21 ° secolo – come Angela Davis lo ha saggiamente definito. Il Movimento per i rifugiati è il movimento che lotta per i diritti di tutti gli esseri umani.

L’International Women Space fa un appello alla mobilitazione politica. Sostegno, aiuto e carità non cambieranno il sistema ma tendono a perpetuare l’idea di un’Europa umanitaria, cosa che sicuramente non è visto il numero delle persone morte in mare tentando di arrivarci. La gente sta scappando da situazioni catastrofiche create dai paesi occidentali.

E’ giunto il momento di gridare di nuovo ad alta voce: “Siamo qui perché avete distrutto i nostri paesi”.

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