Lotta contro le frontiere: un contributo dalla “London Anarchist Bookfair”

traduzione da rabble

Testo di uno degli interventi introduttivi durante la “London Anarchist Bookfair” su “Anarchismo e Lotta contro le Frontiere” (29 ottobre).

L’invito a questo incontro poneva tre questioni: cercherò di toccarle tutte e tre, collegandole nello specifico ad alcune cose successe a Londra nell’ultimo anno o due.
Una delle domande era: perché la lotta contro il regime delle frontiere è importante per gli/le anarchicx? Se devo riassumere cosa significhi per me l’anarchismo, direi: lottare contro il dominio e l’autorità in tutte le loro forme, in ogni aspetto delle nostre vite, dalle armi alle prigioni dello stato fino alle grette dominazioni presenti ovunque nelle nostre strade, luoghi di lavoro, scuole, case e relazioni personali. E, come hanno detto i/le compagnx, l’anarchia non è uno stato ma una tensione, non una specie di utopia da raggiungere dopo la gloriosa rivoluzione, ma una lotta che viviamo ogni giorno, un cammino che continuiamo a percorrere.
Dunque il dominio assume molte forme, ma penso sia vero dire che una delle forme della dominazione che è molto caratteristica del mondo in cui viviamo oggi, e di cui questa città è un ottimo esempio, è quello che potremmo definire sistema di controllo. Vale a dire che le nostre vite, i nostri spazi, i nostri movimenti, le nostre scelte, sono sempre più monitorate, registrate, dirette e organizzate dalle autorità.
Londra è un esempio eccellente di ciò. Ogni millimetro di spazio sta subendo un’evoluzione: mercificato, gentrificato, ripulito socialmente. La pulizia sociale in realtà non significa solo trasferire le persone fuori dai quartieri, ma anche ripulire i quartieri trasformandoli in zone sterili in cui ogni cosa, tranne lavorare e comprare, venga considerata “comportamento antisociale” da eliminare; dove esiste una telecamera in ogni angolo, uno sbirro in ogni scuola, un guardiano di quartiere in ogni strada, e dove la paura e la rassegnazione grondano in ogni cuore.
Cos’ha a che fare tutto questo con le frontiere? Direi che il regime delle frontiere è anche un ottimo esempio delle forme contemporanee di controllo, che è cresciuto negli ultimi cent’anni o giù di lì con gli stati-nazione d’oggi, e che sta diventando sempre più sofisticato e pervasivo. Uso il termine “regime delle frontiere” per indicare non solo le ovvie frontiere esterne tra gli stati-nazione, i checkpoint e il filo spinato, ma anche il controllo e le politiche di cittadinanza e lo stato delle migrazioni dentro i territori, a casa, scuola, a lavoro, nelle strade.
A Londra, ciò include le retate dell’Ufficio Immigrazione che avvengono ogni giorno. Inoltre, adesso, l’intero raggio delle politiche sull’immigrazione e l’informazione si è allargato velocemente: i proprietari vengono multati perché affittano agli “illegali”, o gli insegnanti fanno pressione sui bambini per compilare questionari con dettagli sull’immigrazione. A Londra, i controlli sugli immigrati sono strettamente intrecciati con gli altri sistemi di controllo, parte della pulizia della città dagli elementi indesiderabili, incontrollabili e non redditizi, e motivo per instillare in noi tuttx l’odio e il sospetto verso gli altri, che aiuta l’autorità a prosperare.
Un’altra domanda era: come possiamo superare “l’umanitarismo radicale” e agire in modo efficace per sfidare il regime delle frontiere? Dunque: come possiamo pensare strategicamente dei modi di lottare?
Non penso sia molto utile, e non certamente in questa situazione, pensare in termini di raggiungimento di un mondo senza dominazione, o un mondo senza frontiere. Invece, partirei da questo punto: tuttx noi abbiamo esperienze di ciò che potremmo chiamare rotture, o aperture, dove la vita irrompe e si intravede un altro modo di essere.
Questi possono essere inebrianti momenti di libertà che durano solo un giorno o una notte. O potrebbero essere linee di libertà, come vie di fuga o valichi di frontiera come quelli aperti qualche volta drammaticamente lungo i confini europei nell’ultimo anno. O ancora spazi di libertà, per esempio un quartiere che diventa una zona liberata dalle retate.
Il mio suggerimento è che pensiamo a come aiutare per identificare e creare varchi – momenti, linee e spazi – dove il controllo dà modo a una vita autorganizzata. E che pensiamo a come moltiplicarli e diffonderli.
Un esempio concreto. L’anno scorso, alla fine di febbraio, c’è stato un “blocco squatter” anarchico in una marcia contro la gentrificazione, che è finita con l’occupazione di una parte dell’Aylesbury Estate in South London. Nei due mesi di durata dell’occupazione, si è creato un piccolo ma reale spazio di libertà, uno spazio autorganizzato di vita dove squatter, anarchicx, attivistx, vicinx incazzatx, bambinx, visitatori e altre persone si incontravano, difendevano uno spazio ma andavano anche all’attacco, e lungo la strada si conoscevano l’un l’altro di più e sviluppavano alcune affinità.
Adesso, non è una coincidenza che il 21 giugno, un paio di mesi dopo la fine dell’occupazione, quando l’Ufficio Immigrazione è tornato per la quinta retata della settimana nel mercato di East Street vicino a Aylesbury Estate, è successo qualcosa di speciale, e ben oltre un centinaio di persone si sono opposte e hanno lottato insieme. Quel giorno è stato un forte momento di libertà, una rottura nella normalità e una sfida importante al regime delle frontiere in questa città.
E l’anno scorso ci furono altri momenti potenti di resistenza alle retate a Peckham, Shadwell, New Crosse e altri posti. Oltre a essere importanti in sé, questi eventi hanno ottenuto una notevole marcia indietro della forza dei controlli anti-immigrati in questa città, tanto da vedere quest’anno vari esempi in cui anche solo poche persone, e a volte solo una persona, che resistevano a una retata sono state sufficienti per mandar via le pattuglie a mani vuote.
Dunque qui abbiamo qualche esempio di spazi e momenti di libertà, per quanto limitati e imperfetti siano, di varchi in questa città del controllo. E anche esempi di come questi varchi abbiano diffuso e nutrito nuovi spiragli, per esempio moltiplicandoli mentre ispiravano azioni imitative, o alimentato connessioni e affinità che hanno reso possibili nuovi tipo di azione.
Perciò il mio suggerimento per pensare a come lottare contro il regime delle frontiere, e sicuramente gli altri sistemi di controllo, è riflettere su come possiamo far sì che queste cose succedano sempre più spesso, e diffonderne la notizia.
Questo mi porta all’ultima domanda: cosa, come anarchicx coinvolti in queste lotte, possiamo imparare dalla lotta a fianco di altre persone con differenti credi, che siano migranti o cittadinx?
C’è molto su cui riflettere a riguardo, e toccherò solo un piccolo punto. Nelle azioni e negli spiragli di cui sto parlando, molto spesso nessun anarchicx è coinvolto. O quando ci siamo, siamo pochi tra tutti, di solito una piccola minoranza. Ma credo che spesso abbiamo dei contributi da offrire, forse alcune idee e metodi.
Siamo al fianco di altre persone in lotta, solitamente diciamo contro una retata, un muro o una prigione, e cercando o aprendo varchi. Perché siamo lì? Alcuni di noi possono essere migranti direttamente toccati da questa retata o da questo muro, ma molto spesso non lo siamo. Andiamo lì perché ci interessa delle persone che lo sono, e inoltre perché l’intero sistema di dominazione di cui questi muri e queste retate sono parte colpisce anche noi.
Suggerirei che, se partecipiamo a queste lotte come anarchicx, ci sono alcune trappole a cui dobbiamo stare attentx. Una di queste è diventare dei piccoli politici, che cercano di reclutare membri per una organizzazione, o seguaci da poter guidare o pretendere di rappresentare. Dall’altra parte, c’è la trappola di diventare supporter passivi senza una nostra propria iniziativa. Se abbiamo qualcosa che valga la pena dire, diciamola apertamente e chiaramente; magari gli altri al nostro fianco potrebbero trovarla utile, magari no. Allo stesso tempo, abbiamo molto da imparare dagli altri, in particolare quando questi altri hanno viaggiato e lottato, osato e organizzato e mostrato solidarietà nel percorso che molti hanno fatto attraverso i confini d’Europa.

Quello di cui parlo può essere quello che alcuni compagni anarchici hanno discusso e chiamato “autorganizzazione informale”. Ma dopo tutto, questo non è, una volta spazzati via i giochi della politica, come vogliamo che siano tutti gli incontri umani? Con un po’ di rispetto e onestà, ci incontriamo, cambiamo idee e ci conosciamo l’un l’altra facendo cose insieme, e magari decidiamo che vogliamo fare insieme anche molte altre cose.
Adesso, ci sono sfide particolari nell’avere questo tipo di relazione diretta ed eguale nelle lotte alle frontiere. Per esempio, ci sono i problemi linguistici. Solo per una questione tecnica, penso sarebbe molto fruttuoso cominciare più iniziative di traduzione. Poi c’è il cercare di comunicare tra molti differenti ambienti ed esperienze. E inoltre ci sono i problemi di potere e privilegio quando le persone con e senza documenti si organizzano insieme.
Ma infine una nota positiva, tra tutte queste difficoltà, che penso dovremmo tenere a mente. Cosa davvero ha il potere di sfidare i sistemi di controllo è precisamente quando ci organizziamo per arrivare insieme ad attraversare queste barriere e differenze, e diamo vita ad affinità pericolose. Per tornare indietro alle ribellioni a Peckham, Shadwell, East Street e altre, questo è precisamente quello che ha fatto preoccupare le autorità. Quando in prima linea nella città del controllo, migranti, commercianti, gioventù diseredata, squatter e qualche anarchico si sono uniti per incitarsi l’un l’altro a lottare.

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